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Fantascienza, scientifiction, science fiction: storia aperta o chiusa?

Le pagine che hanno fatto la storia della fantascienza

SPECIALE OTTOBRE – Tra i blockbuster cinematografici degli ultimi anni c’è un tasso di fantascienza di vario genere che è paragonabile solamente alla sbornia degli anni Ottanta, quando uscivano a distanza ravvicinatissima due episodi della trilogia originale di Guerre Stellari, Blade Runner, E.T., Ritorno al futuro, Robocop e Terminator, solo per citare quelli più noti. Film come Avatar o alcuni episodi dei supereroi Marvel sono rapidamente diventati alcuni dei film dal maggiore incasso della storia del cinema. Titoli come Spider Man e The Avenger, però, sollevano quasi immediatamente il dibattito su cosa sia effettivamente fantascienza. Lo è la storia di un supereroe in calzamaglia nella New York contemporanea? Lo sono le vicende di un dio di Asgard, come Thor, che si dibatte tra la Terra e il proprio universo? Difficile dare una risposta univoca, perché lungo la storia del genere, la stessa definizione è cambiata più volte.

Un pugno di “giornaletti”

Il termine ‘fantascienza’ ha un anno di nascita preciso. Si tratta del 1952, quando Giorgio Monicelli così definisce i romanzi e i racconti che pubblica la neonata collana che dirige: Urania. Il termine deriva dall’inglese ‘science fiction’, che però, a essere pignoli, ha un senso leggermente diverso. Prima di Monicelli non si usava in italiano la parola fantascienza, ma ci si riferiva in vario modo al fantastico, all’avventura, alla narrativa d’evasione o ad altro ancora. Dagli anni Cinquanta, quindi, si recuperano alla fantascienza gli autori delle decadi precedenti che avevano gettato le basi del genere. I due capostipiti inamovibili sono sempre Jules Verne e H.G. Wells, quasi icone di due modi complementari di intendere la fantascienza stessa. Verne è un entusiasta della tecnologia e dell’innovazione che vive in prima persona in pieno boom da Rivoluzione industriale nella seconda metà del XIX secolo. Wells è invece più pessimista e apocalittico: basta ricordare la sua Guerra dei mondi per chiarire l’idea.

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Il genere si è definito a opera di un pugno di autori, soprattutto americani, raccolti attorno alla rivista Amazing stories fondata nel 1926 da Hugo Gernsback. Sono questi gli inizi canonici del genere, che si svilupperà in un’altra rivista di Gernsback, Science Wonder Stories (aperta nel 1929), e proseguiti su quelle che vengono chiamate riviste pulp, riviste che pubblicavano generalmente narrativa di genere per un pubblico di massa. Niente di raffinato e colto, ma solamente evasione e intrattenimento. La fantascienza delle riviste nasce in un momento di grande trasformazione tecnologica della società occidentale, quando nel giro di pochi decenni si avvicendano la nascita del cinema e della radio, la fondazione dell’aviazione e la scienza stessa attraversa un periodo di grande crisi e rinnovamento: basti pensare alla fondazione di quella che chiamiamo fisica moderna a cavallo tra l’inizio del Novecento e la Seconda Guerra Mondiale.

Magnifiche sorti e progressive

Gli autori di questa Età dell’Oro della fantascienza, che si protrae fino agli anni Sessanta, sono per lo più entusiasti sostenitori del progresso tecnologico e scientifico, in una maniera quasi acritica. Le storie di “scientifiction” (scientific + fiction), come le chiamava Gernsback, di Edmond Hamilton, Jack Williamson ed Edward Elmer Smith, per citare i più noti, sono state progressivamente ridimensionate dalla critica rispetto al loro valore letterario. Più fortunate le penne di Robert Heinlein (Fanteria dello spazio del 1959, per citare un suo libro famoso), di Clifford Simak o del più celebre Isaac Asimov. Quello che non cambia, pur nelle diverse declinazioni, è la visione di fondo di un futuro ineluttabilmente reso migliore dalla tecnologia e dalla scienza.

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Non mancano, ovviamente, le eccezioni. Come quel 1984 (1948) scritto dall’inglese George Orwell e tirato con forza dentro al genere dai lettori, quando però le basi da cui era partito l’autore erano leggermente diverse (critica sociale e politica). Dall’altra parte dell’oceano c’è Ray Bradbury, che scrive Cronache marziane (1950) e Fahreneit 451 (1953), opere che vengono accettate da subito anche nella narrativa mainstream. Le loro opere, seppure diversissime, offrono però uno sguardo problematico sull’idea di futuro.

Entra in gioco la sociologia

Il panorama cambia radicalmente negli anni Sessanta, quando comunque Asimov e compagnia continuano a scrivere le proprie space opera. John Wood Campbell jr., durante la propria direzione della rivista Astounding Science Fiction iniziata nel 1947, aveva messo dei paletti precisi a cosa fosse fantascienza: un’ipotesi del futuro basata sulla proiezione nel futuro di un aspetto probabile della società e della tecnologia di oggi. Campbell ha, cioè, contribuito in maniera decisiva alla definizione dei romanzi, diremmo per esemplificare, à la Asimov.

I terremoti sociali che si affacciano sugli anni Sessanta, uniti a un trauma come l’utilizzo dell’arma atomica durante la Seconda Guerra mondiale, il “peccato” della scienza come viene anche interpretata, contribuiscono a gettare ombre sulla tecnologia e le sue conseguenze per la società. Si entra in un periodo di grande innovazione per il genere che viene chiamato “new wave”, la nuova ondata. Sono autori che si vogliono occupare di aspetti sociali e psicologici del mondo in cui vivono. In Gran Bretagna, il più importante, è James Ballard, autore di Tempesta di cristallo (1966) e La mostra delle atrocità (1969). Sono opere in cui il confine tra quello che è reale e quello che è immaginato è annullato: personaggi reali come Marilyn Monroe si trovano a viaggiare tra diversi piani dell’universo, in una sovrapposizione mai così forte tra narrato e vissuto.

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L’altro grande innovatore è l’americano Philip Dick. Con La svastica sul sole (in originale The Man in the High Castle, 1962) costruisce una delle più potenti ucronie, o universo parallelo, della storia: un mondo in cui il Terzo Reich di Hitler ha vinto la Guerra e domina il mondo. Dick gioca costantemente con l’allucinazione e l’immaginario potremmo dire psichedelico che nasce in quegli anni. Il suo romanzo più noto fuori alla cerchia dei fan è probabilmente Il cacciatore di androidi (1968) da cui nel 1982 Ridley Scott trae Blade Runner. Sono mondi negativi, come specchi deformanti della società a lui contemporanea, figlia di una Guerra Fredda e di una crescente tensione sociale.

Cyberpunk: la fantascienza “entra” nei computer

Se la narrativa di fantascienza nasce in un periodo di grande accelerazione della tecnologia, come è l’inizio del Novecento, e conosce la sua epoca dorata nel Secondo Dopoguerra, il terzo grande momento di splendore della fantascienza è rappresentato dagli anni Ottanta, quando sulla scena del personal computer e di Internet. Sono gli stessi anni dei primi successi commerciali di aziende che diventeranno giganti del settore informatico come Apple e Microsoft. I libri cardine sono Neuromante (1984), firmato da William Gibson, e la raccolta di racconti Mirrorshades (1986) curata da Bruce Sterling e determinante per definire il sottogenere. La cibernetica, termine da cui deriva anche cyberpunk, e il suo rapporto con l’umano, la commistione uomo-macchina, è al centro delle tematiche, subito definito anche da una matrice politica fortemente connotata (la componente punk). La società è spesso caratterizzata dall’assenza di un potere politico, a favore di multinazionali onnipotenti, quasi sempre connotate negativamente. Questo rapporto con un potere distorto rappresenta spesso una critica socio-politica, ereditata da autori della fantascienza sociologica, del consumismo.

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Gli eroi cyberpunk per antonomasia sono gli hacker informatici, epigoni romantici dell’eroe duro e puro, esterno al sistema che cerca di abbattere. Un ulteriore elemento che conferma la vicinanza della società attuale, la nostra, con i suoi Snowden e Assange, e quella degli autori del cyberpunk. Una distanza di sicuro molto ridotta rispetto agli scenari da space opera della golden age che, ad oggi, rimangono in tutto e per tutto fantascienza. In questo senso, diversi critici letterari hanno parlato di un “futuro che non è più quello di una volta”, sconvolto da visioni distopiche tremendamente vicine a quelle di movimenti politici attuali, e così terribilmente concreto rispetto a mondi lontanissimi di Asimov e Brian Aldiss. La scienza non è più necessariamente un valore positivo, così come non lo è più la tecnologia: in fondo hacker e multinazionali usano le stesse armi per sfidarsi. Siamo di fronte a un mondo foucaultiano, in cui il controllo è l’elemento decisivo rispetto alla voglia di esplorazione e di perlustrazione dell’ignoto, per quanto razionale.

Forse avevano ragione Antonio Caronia e il collettivo Un’ambigua utopia nel decretare la morte della fantascienza con l’esaurirsi del cyberpunk, che da genere carbonaro d’avanguardia si è presto insinuato nel mainstream. Ma la morte non deve essere vissuta come una fine, quanto l’inizio di un nuovo modo di essere della fantascienza. Perché per secoli l’uomo ha vissuto nell’apparente immutabilità del proprio futuro. Il Novecento con il suo progresso accelerato ha mostrato che non è più così, e la fantascienza nelle sue varie forme è stato un elemento di riflessione importante nel rapporto tra società, scienza e tecnologia. Il nuovo secolo sembra essere iniziato con l’uomo “al passo” con il futuro e oggi c’è tanta fantascienza tra di noi, in libri, film, serie televisive e altro, che forse non ha più senso che rimanga nel ghetto, ancorché vitalissimo e dorato, della narrativa di genere.

@ogdabaum

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Marco Boscolo
Science writer, datajournalist, music lover e divoratore di libri e fumetti datajournalism.it