SPECIALE OTTOBRE – Sembra strano trovare un documentario all’interno del programma di un festival di fantascienza come il Trieste + Fiction, giunto alla 14° edizione e impreziosito dalla presenza del maestro cileno Alejandro Jodorowsky. Eppure tanto strano non è, perché Davide Ferrario, regista che con il documentario ha un relazione iniziata già negli anni Novanta, ha voluto e potuto scavare dentro agli archivi del cinema d’impresa italiano per raccontare la storia di come l’Italia sia passata da paese agricolo a paese industrializzato nell’arco di un mezzo secolo costellato da due guerre mondiali. Secondo lo stesso regista, e secondo anche i curatori della selezione triestina, si tratta di un film che racconta un’utopia e, quindi, un tema caro alla fantascienza fin dai propri esordi. E quest’utopia ha a che fare con l’idea di progresso tecnico-scientifico, capace secondo questa retorica di migliorare le condizioni economiche del paese, emancipare le masse, migliorare le condizioni socio-sanitarie della popolazione, iscrivere l’Italia nel club dei paesi che contano a livello mondiale.
Il titolo è preso da Dino Buzzati, che definiva “zuppa del demonio” il metallo liquido che dalle fauci del forni dell’Italsider di Taranto diventava acciaio ritratto in un documentario degli anni Sessanta. “Cinquant’anni dopo”, ha detto Ferrario fin dalla presentazione del film fuori concorso a Venezia, “quella definizione è una formidabile immagine per descrivere l’ambigua natura dell’utopia del progresso che ha accompagnato tutto il secolo scorso”.
Il documentario comincia dagli esordi del cinema, perché il primo film mai girato ritrae i dipendenti uscire dall’azienda Lumiere, a sottolineare fin dagli esordi lo stretto legame tra la nuova arte, il progresso tecnico e il mondo dell’impresa. Da qui si muove, grazie alle ricerche nell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea (nella vecchia sede Olivetti, protagonista di questa parabola), negli archivi della FIAT e praticamente ovunque in Italia si sia documentato il processo industriale del Novecento.
Mentre oggi siamo circondati di start up con vite fragili (almeno in Italia), aziende immateriali e liquide, vedere sullo schermo lo sforzo di un paese che ha messo le dighe ai fiumi per produrre l’energia elettrica, che ha costruito impianti industriali enormi come quello di Mirafiori e che ha sviluppato un settore come quello dell’acciaio (di cui ancora oggi l’Italia, nonostante i problemi legati all’Ilva e agli impianti di Terni, è ancora secondo produttore europeo) serve a ricordarci che il progresso novecentesco italiano è passato in buona parte da un’industria pesante e molto concreta. Il film si ferma all’inizio degli anni Settanta, quando l’utopia tecnico-industriale italiana si schianta contro la crisi petrolifera. Con una dose talvolta sorprendente di ingenuità, però, quell’utopia ha permesso all’Italia di diventare un paese moderno. Qualcosa si è poi inceppato, ma è un’altra storia, che meriterebbe un altro documentario.
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