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Verso un test per il rischio preeclampsia

È una delle principali cause di mortalità materna e di ritardi di crescita fetali. Ma qualcosa si muove nella previsione precoce del rischio

http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Preeclampsia.nih.jpg?uselang=it#filelinksGRAVIDANZA E DINTORNI – C’è un mantra che ogni ginecologo ripete alle sue pazienti incinte: non dimenticare mai di misurare la pressione. Nei primi mesi può bastare un controllo al mese, ma dopo le 26 settimane meglio passare a uno ogni 10-15 giorni, o anche ogni settimana quando si è in dirittura d’arrivo. Il motivo? Semplice: perché un aumento della pressione arteriosa rappresenta uno dei segni principali di preeclampsia, una malattia tipica della gravidanza potenzialmente pericolosa per la mamma e per il feto. Si tratta di una delle cause principali di mortalità materna in gravidanza o durante il parto, sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli sviluppati come l’Italia, dove ancora muoiono 7-13 donne ogni 100.000 nati. E anche il bambino può andarci di mezzo, perché in molti casi viene coinvolta la placenta, cioè l’organo che serve a nutrirlo. «Una placenta che funziona male ha due conseguenze» spiega Tullia Todros, a capo della struttura complessa di ginecologia e ostetricia dell’AOU Città della salute e della Scienza di Torino. «Da un lato, produce sostanze “cattive” che danneggiano la circolazione della madre; dall’altro non permette il passaggio di ossigeno e nutrienti al bambino, che smette di crescere ed entra in sofferenza». Insomma, una condizione da tenere sotto stretto controllo. Per fortuna, però, la ricerca si sta dando da fare per individuare segnali precoci di rischio, che possano aiutare a prevenirla o a gestirla meglio, con qualche risultato (e qualche primo test clinico) promettente.

La preeclampsia è una malattia subdola: «Molto spesso la donna colpita non avverte sintomi» afferma Todros. A segnalare che qualcosa non va è la pressione più alta del normale, accompagnata da perdita eccessiva di proteine nelle urine e da alcune alterazioni degli esami del sangue che indicano sofferenza del rene, del fegato o dell’apparato circolatorio. «Solo in alcuni casi compaiono cefalee e forti dolori di stomaco, che però sono già sintomi di una forma piuttosto grave». La malattia, che insorge in genere nella seconda metà della gravidanza, colpisce circa il 7-8% delle donne incinte: l’1% va incontro a una forma grave, che può potenzialmente comportare disturbi della coagulazione, emorragia cerebrale, danni generalizzati agli organi, fino alla morte.

«Purtroppo, quando la preeclampsia si manifesta, si può fare poco per contrastarla» spiega la ginecologa. «L’unico modo definitivo per fermarla è fermare la gravidanza, cioè far nascere il bambino». Che potrebbe quindi essere prematuro, con tutti i rischi legati a questa condizione, soprattutto se il parto avviene molto precocemente, intorno a 26-28 settimane. «Si tratta di valutare e bilanciare i rischi che corrono mamma e bambino, cercando – se possibile – di portare avanti la gravidanza anche per pochi giorni in più con l’aiuto di alcuni farmaci sintomatici come quelli per abbassare la pressione». Naturalmente quando serve, perché ci sono anche casi in cui il bambino – che non riceve più ossigeno e sostanze nutritive – sta peggio nella pancia della mamma che fuori.

L’ideale, dunque, sarebbe prevenire la malattia. «Per molto tempo non si è potuto fare nulla» racconta Todros. «Negli ultimi anni, però, è stato evidenziato che l’assunzione di aspirina a basso dosaggio (la cosiddetta aspirinetta) nelle prime 12-14 settimane di gravidanza, cioè nel periodo in cui si forma la placenta, riduce il rischio di preeclampsia». Il problema è che non si può far prendere l’aspirinetta a tutte le donne incinte: bisognerebbe individuare quelle a rischio. «Alcuni fattori possono predisporre. Per esempio, se la donna è già ipertesa o ha già avuto preeclampsia in altre gravidanze, se è affetta da malattie renali o autoimmuni. Nella maggior parte dei casi, però, la preeclampsia si manifesta alla prima gravidanza e senza fattori di rischio particolari». Per questo sarebbe utile disporre di marcatori fisici o chimici che permettano di individuare facilmente le donne in pericolo. Ed è proprio in questa direzione che si è orientata molto la ricerca negli ultimi anni.

Si è partiti con il doppler delle arterie uterine, un esame ecografico utile per capire come sta funzionando la placenta in base a misurazioni biofisiche del flusso di sangue nei vasi. Finora, il metodo è stato in grado di segnalare le donne a rischio solo intorno alle 20 settimane di gravidanza, quando è già tardi per una terapia preventiva. Sembra però che anche alcune alterazioni del flusso visibili già nel primo trimestre siano associate a un maggior rischio di  preeclampsia. Nello stesso tempo, si stanno cercando marcatori biochimici, rilevabili con un semplice esame del sangue, da usare da soli o insieme al doppler. «L’attenzione è puntata soprattutto su proteine prodotte dalla placenta, perché è il primo organo interessato dalla malattia, e tra queste in particolare il PlGF, fattore di crescita placentare» sottolinea Todros. L’ultima novità nel settore, per esempio, è un test della Roche che misura proprio il rapporto relativo di PlGF e di un’altra proteina, sFlt-1.

È decisamente ancora presto per parlare di screening precoce, ma la strada potrebbe essere quella giusta e comunque sono già possibili alcuni impieghi interessanti per questi primi test. Quello Roche, per esempio, è proposto per prevedere il rischio di preeclampsia nei 7-10 giorni successivi l’esecuzione. «Può sembrare poco, ma in un pronto soccorso ostetrico questo potrebbe essere utile per fare delle distinzioni tra le donne che si presentano con alta pressione, concentrando i controlli su chi ne ha davvero bisogno ed evitando invece ricoveri inutili» commenta la ginecologa. Nel frattempo, non resta che continuare a misurarsi la pressione e, per clinici e ricercatori, continuare a studiare. Anche perché, in fondo, di preeclampsia si sa ancora molto poco. «Sappiamo che dipende da un danno generalizzato alle pareti dei vasi sanguigni, ma non sappiamo da cosa dipenda questo danno» conclude Todros. «Potrebbero essere coinvolte cause infiammatorie o autoimmuni, ma i meccanismi sono tutti da chiarire».

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance