Nuovi passi in avanti verso la rigenerazione ossea
Un nuovo studio anche italiano mostra nuovi importanti risultati, per una prima sperimentazione clinica entro 4-5 anni
RICERCA – A oggi una terapia completamente efficace e sostenibile per la rigenerazione ossea non esiste. C’è la possibilità di ricorrere a sostituti ossei naturali o sintetici nell’ambito dell’ortopedia, dell’odontoiatria, della neurochirurgia oppure per la chirurgia maxillo-facciale. Tuttavia, ora come ora sono disponibili solo tecniche microchirurgiche molto complesse o fattori di crescita molto costosi (BMP- Bone Morphogenetic proteins) che vengono usati a concentrazioni non fisiologiche e i cui effetti a lungo termine non sono del tutto conosciuti. La ricerca però non si ferma, e l’Italia ancora una volta è all’avanguardia. La rivista americana PNAS ha infatti pubblicato di recente uno studio che apre una nuova frontiera sulla rigenerazione ossea, e che annovera tra gli autori Celeste Scotti dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi, che ha raccontato questo nuovo passo in avanti ai microfoni di OggiScienza.
“Questo studio è il terzo step di un lavoro di ricerca molto lungo, iniziato nel 2008 che consiste nello sviluppo di un metodo, attualmente in sperimentazione, per riprodurre il processo di formazione dell’osso, così come avviene in fase embrionale. Nei primi due studi abbiamo validato il concetto di Developmental Engineering ovvero rigenerare un tessuto secondo i processi dello sviluppo, mentre ora ci siamo concentrati su come rendere la metodica applicabile nella pratica clinica” racconta Scotti. “C’è infatti un’enorme differenza fra riparare le ossa, cosa che già si fa quotidianamente con la chirurgia, e permettere la rigenerazione di pezzi di ossa all’interno di un organismo vivente”.
Quello che ha fatto il gruppo di ricercatori a cui appartiene Scotti si basa sull’utilizzo delle cellule staminali/stromali mesenchimali. Si tratta infatti di prelevare le cellule dal midollo osseo, farle differenziare in cartilagine ipertrofica e poi, grazie al contributo di un cosiddetto “gene suicida” che elimina le cellule dal tessuto, ottenere una cartilagine priva di qualsiasi cellula ma contenente importanti fattori di crescita. Una volta ottenuto, questo tessuto è pronto per essere congelato e conservato in attesa di un impianto.
“La ragione per cui è importante eliminare le cellule dal tessuto ottenuto dopo la differenziazione è che esse potrebbero provocare rigetto nel soggetto ospite e non permetterebbero la conservazione del tessuto. Con questa tecnica invece noi utilizziamo le potenzialità delle cellule staminali fino a raggiungere lo stadio che ci interessa, cioè la cartilagine ipertrofica, e poi eliminiamo le cellule in modo da poter conservare un tessuto biologico, quindi non artificiale, ma che non susciterà rigetto nel paziente ricevente.” In altre parole si rinuncia a un po’ di rigenerazione, che è favorita dalla presenza delle cellule stromali, utilizzando solo il potenziale rigenerativo dei fattori di crescita, ma guadagnandoci in termini di rigetto.
Questo metodo ha già dato ottimi risultati nelle prime sperimentazioni e rappresenta una potenziale futura opportunità per i pazienti, consentendo di ricreare un osso funzionalmente uguale all’originale e superando i limiti dei sostituti ossei utilizzati tradizionalmente.
“Non vi sono esperimenti in atto sull’uomo al momento nel mondo, e anche noi siamo ancora in fase preclinica, ma soprattutto alla luce di quest’ultima ricerca crediamo di poter avviare la fase clinica entro 4-5 anni” prosegue Scotti. “Stiamo lavorando all’interno di un progetto europeo della durata triennale (un anno è già passato) che vede diversi partner coinvolti e che si è posto come traguardo di realizzare un primo studio clinico sull’uomo a due anni dal termine del progetto.”
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