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Obbedienza agli ordini e legge morale: nuove osservazioni sul test di Milgram

Davanti a ordini moralmente difficili da eseguire l'essere umano non è del tutto incline all'obbedienza cieca: dalla ragion pratica di Kant alla volontà del Führer

Nürnberg, Reichsparteitag
RICERCA – “In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più per obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro alla legge – la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann, era la volontà del Fuhrer.”

Così scriveva Hannah Arendt nel 1961, mentre a Gerusalemme Adolf Eichmann veniva processato per i suoi crimini. Il processo a Eichmann raccontato ne La banalità del male, e la sua costante dichiarazione di innocenza, “mi dichiaro non colpevole, ho solo eseguito degli ordini” hanno rappresentato un esempio storico di comportamento umano quando entra in gioco l’obbligo di obbedire a degli ordini, e anche dal punto di vista della scienza non sono mancati esperimenti in questo senso. Sempre nel 1961 lo psicologo statunitense Stanley Milgram propose infatti un test atto a studiare il comportamento degli esseri umani nel momento in cui un’autorità avesse ordinato loro di compiere delle azioni in contrasto con i valori morali di base, come non nuocere fisicamente a un altro individuo.

Milgram e colleghi ritennero che l’esperimento fosse riuscito a dimostrare una volta per tutte che l’obbedienza non è un concetto fisso, ma cambia a seconda della situazione in cui è immersa la persona che deve scegliere se obbedire o meno. Un risultato testimoniato, secondo il team di scienziati, dai dati raccolti: circa 2/3 delle persone testate avevano obbedito agli ordini impartiti, infliggendo scariche elettriche a una persona inerme, anche se ciò confliggeva con i propri principi morali, e il tutto con una scarsa percentuale di resistenza.

Oggi però, a oltre 50 anni dalle conclusioni di Milgram, ci sono delle novità, e arrivano dall’Università di Madison, nel Wisconsin. Secondo Matthew Hollander, ricercatore in sociologia, le conclusioni di Milgram furono infatti in qualche modo falsate dal fatto che egli classificò i partecipanti in due uniche categorie: gli “ubbidienti” e i “disubbidienti”, mentre secondo Hollander, che ha riesaminato gli audio dell’esperimento, le sfumature sarebbero addirittura sei. Sei diversi atteggiamenti che i partecipanti al test avrebbero rivelato, e che metterebbero dunque in dubbio il binomio secco definito nel 1961 secondo cui la maggior parte delle persone tenderebbe a obbedire agli ordini senza opporre particolare resistenza. In altre parole, le osservazioni recenti di Hollander, pubblicate sul British Journal of Social Psychology, sembrano suggerire che vale la pena riconsiderare l’attitudine umana ad anteporre l’obbedienza ai principi morali.

Ma facciamo un passo indietro ed esaminiamo l’esperimento di Milgram. In breve venne selezionato un campione maschile di persone dai 20 ai 50 anni senza comunicare loro il vero obiettivo del test. Si fece credere a ognuno di essi di essere stato sorteggiato casualmente per il ruolo di “insegnante” all’interno dell’esperimento, mentre altri – venne loro raccontato – sarebbero stati scelti come “alunni”. In realtà si trattava di una mera finzione: tutti i partecipanti infatti erano testati nel ruolo di insegnanti, mentre gli “alunni” altro non erano che complici dei ricercatori. Il test era molto semplice: l’”insegnante” doveva rivolgere delle domande all’”alunno” e qualora quest’ultimo avesse risposto in maniera errata, egli avrebbe dovuto – questo era l’ordine impartito dall’autorità, ovvero dagli scienziati – cliccare un tasto sul proprio monitor che avrebbe corrisposto una scarica elettrica sull’alunno. Scariche di diversa intensità a seconda del grado di perseveranza nell’errore. In realtà non veniva attivata alcuna scossa elettrica sui complici, l’obiettivo era appunto testare se e in che modo gli “insegnanti” si sarebbero sottratti al compito, specie nel momento in cui l’“alunno” avesse mostrato i primi segni di sofferenza.

Ebbene, proprio qui sta la novità del recente contributo di Hollander e compagni, secondo i quali non sarebbero in realtà state osservate unicamente due tipologie di reazione, cioè ubbidire pedissequamente agli ordini bypassando la legge morale, o, al contrario, rifiutarsi di infliggere la pena agli “alunni”. Secondo Hollander la situazione sarebbe più complessa e anche fra coloro i quali di fatto alla fine avevano deciso di obbedire gli ordini, si sarebbero riscontrate diverse forme di rimostranza o semplicemente di disaccordo. In altri termini: non tutti quelli che hanno deciso di obbedire l’hanno fatto per totale mancanza di autocoscienza.

Non si è trattato insomma di obbedienza cieca: l’attitudine all’obbedienza e i principi morali insiti nella nostra cultura avrebbero una dialettica decisamente più articolata di quanto espresso dal test di Milgram. Atteggiamenti di mancata colpevolizzazione come quello di Eichmann non sarebbero quindi, secondo questa recente rivisitazione, il leitmotiv del comportamento umano. Al contrario, proprio le pratiche di resistenza osservate nell’esperimento – si legge – potrebbero, se “allenate”, diventare parte del nostro “equipaggiamento” che ci permette di resistere a un ordine illegale o immorale da parte di un’ autorità. “Non serve essere nazisti o aver preso parte alle torture inflitte ad Abu Ghraib – afferma l’autore – per capire di che cosa si sta parlando. Basti pensare alla situazione di pilota e copilota che si trovano in una situazione di emergenza o di un preside di una scuola che dice a un suo insegnante di punire uno studente.”

@CristinaDaRold

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Bundesarchiv, Wikimedia Commons

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.