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L’identità di genere è nel cervello

A Vienna hanno scoperto che il genere è identificabile nelle reti neurali che collegano varie aree del cervello.

4896822030_e7fa872658_zAPPROFONDIMENTO – Il nostro senso di appartenenza a un genere è parte integrante, e fondamentale, della percezione di noi stessi. Non sempre, però, l’identità percepita coincide con il sesso biologico, con i nostri organi sessuali. Eppure, anche se il fisico apparentemente non rispecchia quello che sentiamo dentro di noi, il cervello non mente e la struttura delle sue connessioni tra aree ci dice cosa siamo. In un recente studio, condotto da Georg Kranz e colleghi alla Medical University di Vienna e pubblicato sul Journal of Neuroscience, il team ha mostrato che l’identità di genere delle persone ha sede nelle connessioni neurali.

L’imaging a risonanza magnetica (MRI) effettuata su un gruppo di persone – femmine, maschi e transgender (sia maschio-femmina che femmina-maschio) – ha indicato che la microstruttura dei link cerebrali è diversa tra maschi e femmine. Mentre i transgender si collocavano tutti in una situazione di mezzo: “Nei quattro gruppi analizzati – spiega Kranz – abbiamo trovato una differenza nella cosiddetta diffusività media, ossia la media della diffusione di molecole d’acqua in tutte le direzioni spaziali, misurata attraverso la MRI. La diffusività media era più alta nelle femmine, più bassa nei transgender da maschio a femmina e da femmina a maschio, più bassa ancora nei maschi. Ciò nonostante, le basi biologiche di questa differenza non sono ancora del tutto comprese. Per esempio, questo può significare una differenza nel numero di assoni o nel loro diametro? Nella densità della materia bianca o nella sua maturazione? Ancora non lo sappiamo”.

Ci sono transessuali che hanno sempre conosciuto la loro identità. Altri che, nella loro vita, negli anni di giovane età, non capendo ciò che sentivano, non sempre hanno saputo come definirsi. C’è anche chi, dopo un lungo periodo di psicoterapia preparatoria all’intervento di conversione, ha capito di aver sbagliato valutazione su se stesso. C’è confusione, alcune volte anche nella comprensione di noi stessi. Dovuta alle costruzioni e alla costrizioni della società, dovuta ad una lunga storia di incasellamento in ruoli. E all’umana natura.
E allora ci chiediamo se questo studio potrebbe mettere un punto. Per definire la nostra identità sessuale con chiarezza basterà guardare nella sostanza bianca del nostro cervello?

“Le differenze che abbiamo visto – precisa il ricercatore – sono significative, ma non definitive. Con questo intendo dire che i gruppi, almeno in parte, si sovrappongono tra loro. Non è possibile, quindi, affermare che uno è femmina, maschio o transessuale solo guardando nella sua struttura cerebrale. Per ora possiamo solo dire qualcosa sulla probabilità di appartenere a uno di questi quattro gruppi”.

Il disturbo dell’identità di genere. Tanto per inquadrare
Il disturbo dell’identità di genere, sindrome clinica conosciuta con il termine più popolare di transessualismo, è classificato tra i disturbi mentali.
In genere si parte da due grandi distinzioni: si parla di DIG primario, il disturbo di chi dà chiari segnali fin da giovane età, e DIG secondario, quando il disturbo diventa palese in adolescenza.
La disforia di genere è un disturbo realmente invalidante per chi ne è affetto perché la frattura che si crea tra l’identità sessuale e il genere fisico provoca notevoli sofferenze a livello psicologico. Inoltre l’identità di genere è parte integrante del nostro senso d’identità generale.
“Non se ne conosce esattamente l’origine – chiarisce la dottoressa Laura Scati, psicologa del CEDIG, Centro per i Disturbi dell’Identità di Genere, che fa capo all’ospedale di Cattinara di Trieste – ma quello che si sa è che è presente in tutte le culture e proprio questa presenza fa pensare che ci sia qualcosa di biologico. Ci sono varie ipotesi; una delle possibili è che ci siano alla base sia componenti biologiche che ambientali, che possono scatenare il disturbo”. In particolare nell’ipotesi più accreditata sarebbe rilevante l’ambiente ormonale durante le ultime fasi della vita prenatale e il primo sviluppo cerebrale postnatale. Ipotesi con la quale, concorderebbero appunto i risultati della ricerca di Vienna.
Per curare il disturbo non c’è terapia farmacologica in grado di portare ad una soluzione definitiva. L’unica terapia attualmente considerata come risolutiva è quella chirurgica, che di fatto trasforma i genitali maschili in femminili e viceversa. Dal punto di vista della tecnica chirurgica si tratta di demolire e ricostruire i genitali attraverso la modellazione di tessuti già esistenti in altre parti del corpo: porzioni di cute vengono autotrapiantate per dare vita, dal punto di vista fisico, ad una nuova identità.

La conversione di genere. Come avviene
Da uomo a donna
Per sommi capi l’operazione “M to F”, che trasforma i genitali maschili in quelli femminili, una tecnica ormai abbastanza consolidata, avviene in questo modo: l’intervento inizia con la fase demolitiva degli organi sessuali di origine, ossia con la rimozione di testicoli e pene. Quindi si passa alla parte ricostruttiva: il retto viene scollato dalla prostata e si sfrutta questa zona avascolare per creare una cavità che può avere anche 12-16 cm e che, per evitare che “guarisca” e cicatrizzi, va riepitelizzata spostando la pelle del pene che viene rimosso e dello scroto. Si modella così un cilindro di pelle che viene affossato e fissato sotto alla prostata.
Da un paio d’anni è disponibile una tecnica per la quale per costruire il neoclitoride si può usare un gettone di tessuto spugnoso ricavato dal glande. Precedentemente il tessuto veniva circondato dalla cute, mentre questa modifica prevede di usare molta più mucosa uretrale, assai simile alla mucosa vaginale, e si inserisce il gettone di tessuto all’interno di questa mucosa: l’aspetto cosmetico è convincente e assicura la lubrificazione al neoclitoride.
La vita sessuale dei pazienti può essere paragonata a quella naturale.

Da donna a uomo
Le possibilità sono molteplici, ma, sintetizzando, potremmo dire principalmente due, in funzione delle condizioni di partenza della paziente. Una soluzione è la clitoridoplastica: in alcuni casi, con le cure ormonali appropriate, il clitoride diventa ipertrofico e può essere modificato in un piccolo pene. Nel secondo caso si procede tagliando un lembo di pelle, una sorta di tasca ricavata dalla pancia o dall’interno coscia. Il lembo viene arrotolato su se stesso e viene costruito un penoide, mentre nelle grandi labbra vengono inserite due protesi testicolari. Solo in alcuni casi, però, è possibile garantire al paziente una certa sensibilità e una, seppur complicata, sensazione orgasmica.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Kristin_a, Flickr

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Sara Stulle
Libera professionista dal 2000, sono scrittrice, copywriter, esperta di scrittura per i social media, content manager e giornalista. Seriamente. Progettista grafica, meno seriamente, e progettista di allestimenti per esposizioni, solo se un po' sopra le righe. Scrivo sempre. Scrivo di tutto. Amo la scrittura di mente aperta. Pratico il refuso come stile di vita (ma solo nel tempo libero). Oggi, insieme a mio marito, gestisco Sblab, il nostro strambo studio di comunicazione, progettazione architettonica e visual design. Vivo felicemente con Beppe, otto gatti, due cani, quattro tartarughe, due conigli e la gallina Moira.