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Quando il bimbo in pancia non cresce

Su Lancet, un confronto tra i metodi di monitoraggio della restrizione di crescita fetale per trovare il momento giusto per il parto

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Nota della redazione: questo articolo è stato scritto nel 2015 ma continua a essere letto e condiviso da molti lettori. Le informazioni in esso contenute rimangono valide e attuali. Lo abbiamo tuttavia integrato con alcuni aggiornamenti (in corsivo nel testo).

GRAVIDANZA E DINTORNI – Può succedere: un’ecografia, magari di routine, e la scoperta che c’è qualcosa che non va, che il bimbo ha rallentato la sua crescita ed è più piccolo (o molto più piccolo) di quanto dovrebbe essere. È la restrizione di crescita fetale (una volta chiamata anche ritardo di crescita fetale, in sigla sempre Iugr).

Si tratta di una condizione tanto più grave e pericolosa quanto più precocemente si manifesta e per la quale non ci sono terapie. Alcuni approcci – compresa una strategia di terapia genica con un fattore di crescita di vasi sanguigni – sono in sperimentazione preclinica o clinica, ma nessuno è attualmente disponibile per le gravidanza colpite.

L’unica soluzione possibile è far nascere il bambino prima che sia troppo tardi ma possibilmente non troppo presto, per evitare i rischi della prematurità. Per questo è importante disporre di strumenti adeguati che aiutino a individuare il momento migliore per il parto.

Un confronto tra i metodi a disposizione

Proprio del confronto tra i metodi oggi disponibili si è occupato TRUFFLE, un ampio studio europeo appena pubblicato sulla rivista The Lancet. Giungendo alla conclusione che il modo migliore per tenere sotto controllo la crescita fetale e decidere tempestivamente cosa fare prevede l’utilizzo, in aggiunta al classico tracciato cardiotocografico, di un esame ecografico specializzato: il doppler del dotto venoso.

La restrizione di crescita fetale non è un evento raro. Le forme più gravi, quelle che compaiono già a partire dalle 24/26 settimane, e a volte anche prima, interessano circa l’uno per cento delle gravidanze. A volte le cause sono chiare: per esempio in caso di sindromi cromosomiche fetali, anomalie nella struttura o nell’impianto della placenta, infezioni o particolari condizioni materne (come diabete o trombofilie).

«Nella maggioranza dei casi non c’è una causa ben riconoscibile, ma sappiamo comunque che l fenomeno dipende dal fatto che la placenta non funziona bene perché non si è formata bene: di conseguenza, al feto non arrivano ossigeno e sostanze nutritive a sufficienza». Lo spiega a OggiScienza Tullia Todros, responsabile della struttura complessa di ginecologia e ostetricia dell’AOU Città della salute e della Scienza di Torino, tra i partecipanti allo studio TRUFFLE. In altre parole, il bimbo non “respira” e non “mangia” in modo adeguato. Per di più i suoi tessuti tendono ad acidificarsi per la carenza di ossigeno. A lungo andare, questo danneggia gli organi del piccolo e, insieme alle carenze, può portarlo alla morte.

Come intervenire e cogliere il momento giusto per il parto

Purtroppo non ci sono terapie, nessun farmaco o strategia che possa aiutare il feto in difficoltà. L’unico intervento possibile è il parto, per tirar fuori il bambino da un ambiente nel quale non sta più bene e che ormai è diventato una minaccia. Anche questa non è una soluzione priva di rischi. Parliamo di parto prematuro, con tutte le possibili conseguenze negative in termini di mortalità neonatale e di disturbi (soprattutto neuromotori e cognitivi) a lungo termine.

«Sappiamo che, soprattutto in epoca gestazionale precoce, ogni settimana è importantissima. Anche solo passando da 26 a 27 settimane, le possibilità di sopravvivenza e di sopravvivenza libera da handicap cambiano radicalmente» sottolinea Todros. Ecco perché è fondamentale riuscire a cogliere il momento giusto per il parto. Ovvero quello nel quale è ottimale il rapporto tra i rischi associati alla prematurità e rischi associati alla permanenza in utero.

Lo strumento d’elezione per valutare la crescita fetale e capire se c’è qualcosa che non va è il cardiotocografo. Questo strumento registra il battito cardiaco fetale attraverso sensori posti sulla pancia della mamma ed è lo strumento con il quale si fa il classico “tracciato” quando la gravidanza giunge a termine. In aggiunta si può utilizzare il doppler delle arterie ombelicali, una valutazione ecografica della circolazione nella parte fetale della placenta.

Nello studio TRUFFLE si è deciso di valutare l’utilità per controllare la crescita fetale anche di un altro strumento cioè il doppler del dotto venoso, una struttura anatomica che è presente solo nel feto e porta il sangue direttamente dalla placenta al cuore.

Tre gruppi di monitoraggio, tre diverse strategie

Nello studio – condotto in vari centri in Italia, Germania, Regno Unito e Paesi Bassi – sono state coinvolte oltre 500 donne incinte. Tutte avevano ricevuto una diagnosi di restrizione di crescita fetale formulata tra le 26 e le 32 settimane di gravidanza. Le partecipanti sono state suddivise in tre gruppi, nei quali la scelta sul momento in cui far nascere il bambino è avvenuta in base a tre diverse strategie di monitoraggio. Il tracciato cardiotocografico da solo, oppure accompagnato a modificazioni lievi del doppler del dotto venoso o, ancora, accompagnato a modificazioni gravi del doppler.

L’obiettivo finale era confrontare mortalità perinatale e sopravvivenza libera da handicap a due anni di vita nei tre diversi gruppi.

«Tanto per cominciare, lo studio ci ha permesso di ottenere dati generali relativi a un gruppo consistente di pazienti, che possono aiutarci a consigliare le donne che si trovano in questa situazione» sottolinea Todros. «Per esempio, abbiamo osservato che la mortalità perinatale aumenta quanto più precocemente viene diagnosticata la restrizione di crescita. In generale, però, nel nostro campione abbiamo notato esiti migliori di quanto ci aspettassimo, con una mortalità perinatale dell’8%. Tra i sopravvissuti, ben l’82% dei bambini risultava senza conseguenze a lungo termine». Davvero un ottimo risultato, forse anche per l’assiduità dei controlli ai quali sono state sottoposte le partecipanti.

In realtà i tre metodi di monitoraggio della crescita fetale sotto analisi non hanno portato a differenze significative rispetto alla mortalità neonatale. Ma è cambiato qualcosa rispetto alla sopravvivenza libera da handicap a 2 anni, che è risultata più elevata (95%) nel gruppo che era stato sottoposto a doppler del dotto venoso con intervento in presenza di modificazioni gravi, rispetto al gruppo controllato con solo cardiotocografo (85%).

Una nuova tecnologia per migliorare il monitoraggio

Per gli operatori, dunque, il consiglio è di aggiungere anche questa tecnologia al bagaglio di strumenti già utilizzati, cardiotocografo in primis. In effetti, vanno già in questa direzione le linee guida del Royal College of Obstetrician and Gynaecologists inglese per la gestione dei feti con problemi di crescita. E secondo le conclusioni di una review che nel 2018 ha messo a confronto varie linee guida nazionali sulla gestione della restrizione di crescita fetale, l’utilizzo del doppler del dotto venoso andrebbe inserito in tutte le linee guida che si occupino dell’argomento.

Come affrontare – e prevenire – la restrizione di crescita

Ma quali consigli si possono dare alle donne che vivano questa condizione, spesso davvero drammatica? «Di sicuro, di fronte a una diagnosi di restrizione di crescita fetale la cosa da fare è rivolgersi a un centro di secondo livello già specializzato sul tema» suggerisce Todros. «Questo perché bisogna avere apparecchiature adeguate e bisogna saperle usare bene. Ma anche perché oltre alle macchine serve anche l’occhio clinico, che si può avere solo con tanta esperienza».

Spesso è già chi fa la prima diagnosi di restrizione di crescita fetale a indirizzare la donna nel centro migliore più vicino. Se questo non accade, bisogna cercarselo da sole. Magari interrogando direttamente i medici con i quali si entra in contatto sull’esperienza del centro nella gestione di questa condizione e sul numero di casi affrontati ogni anno.

Se praticamente nulla si può fare sul fronte della terapia del ritardo di crescita fetale, qualcosina è possibile su quello della prevenzione. Tutte le linee guida disponibili concordano sull’importanza di evitare il fumo di sigaretta, se possibile già in epoca precocenzionale. Alle donne con rischio elevato di Iugr – per esempio perché sono a rischio di preeclampsia, o perché hanno già avuto un feto con grave Iugr in una gravidanza precedente – viene inoltre consigliata l’assunzione di aspirinetta. Da prendere entro le 16 settimane di gravidanza, preferibilmene alla sera, e comunque con un’efficacia limitata.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Credit Immagine: hudsonthego, Flickr

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance