Edmea Pirami, pediatra bolognese. Per tutti “la Dottoressa”
Le belle storie delle donne di scienza non sono solo quelle altisonanti e internazionali. Lo sono anche quelle piccole e di provincia.
Negli anni Venti del secolo scorso, per una giovane studentessa di medicina riuscire a inserirsi nel tessuto accademico radicato da secoli in un’ottica prettamente maschile risultava un’ardua impresa che riusciva a poche. Se poi aggiungiamo che, almeno in Italia, la professione medica ha cominciato a essere propriamente professionalizzata, cioè quando venne a crearsi un mercato dei servizi, solamente verso la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, l’impresa può sembrare titanica. Anche se stiamo parlando di una branca della medicina che da sempre è “più femminile” di altre, la pediatria. A Bologna, Edmea Pirami è riuscita nell’impresa.
L’ammirazione per la sorella maggiore
Edmea Pirami nacque ad Ascoli Piceno il 27 giugno 1899 in una famiglia dai forti interessi letterari e scientifici. Il padre Alberto, originario di Pescia, piccola cittadina toscana, era professore di lettere al ginnasio, mentre la madre Virginia Amadei, di Lugo di Romagna, si occupava della casa e della cura delle figlie. Terza di cinque sorelle (Ester, Raffaella, Edmea, Lea Maria, la terzogenita Beatrice morì a soli nove anni di pertosse) fu educata a impegnarsi a fondo nei suoi studi. La madre Virginia voleva per le sue figlie un’istruzione che consentisse loro di lavorare e di affrancarsi dall’obbligo di contrarre un “buon matrimonio” come all’epoca si raccomandava alle ragazze di buona famiglia.
La famiglia Pirami seguì gli spostamenti professionali del padre, prima a Livorno poi a Bologna dal 1906. A Bologna Edmea frequentò il liceo classico, dove iniziò a nutrire un profondo interesse per la filosofia e le scienze naturali. Al momento di scegliere la facoltà universitaria scelse per medicina, seguendo le orme della sorella maggiore Ester (1890-1967), già laureata in medicina nel 1914. C’è da dire che Edmea aveva subìto il fascino della sorella prima ancora di decidere l’università. A sedici anni prese a visitare l’Istituto Rizzoli di Bologna, dove erano ricoverati i feriti di ritorno dal fronte della Grande guerra. Lì imparò i trattamenti e le medicazioni di base. L’estate successiva seguì Ester a Pescia e, sotto la sua supervisione, passò le vacanze al dipartimento di chirurgia dell’ospedale civile della città. «Fu solo il nobile esempio di mia sorella e la mia pratica iniziale che fecero maturare la mia vera inclinazione di diventare dottore. In più, il mio amore per la scienza aumentava le mie inclinazioni umanitarie a dare ai pazienti l’aiuto spirituale in tempi tragici» lascia scritto Edmea.
Dall’aula universitaria alla corsia ospedaliera
Con gli ottimi risultati della licenza liceale, Edmea riuscì a essere ammessa a medicina nel 1916 con un parziale esonero delle tasse scolastiche, che mantenne per tutti gli anni universitari. Durante il quarto anno frequentò con vivo interesse le lezioni di Carlo Francioni alla Clinica pediatrica Gozzadini. Dopo quest’incontro la pediatria sarà la strada che Edmea scelse di percorrere.
Il 4 luglio 1922, a soli ventitré anni e unica donna del suo corso, Edmea conseguì con il massimo dei voti la laurea in medicina e chirurgia, sostenendo la tesi Sulla patogenesi della tetania infantile colla presenza di basi guadininiche nel corpo. Di un metodo speciale per la ricerca delle basi nell’urina, risultato di una serie di ricerche condotte presso la clinica universitaria a partire dal 1920. La soddisfazione della laurea con lode non fu l’unica quel giorno, perché Francioni la propose come sua assistente al Gozzadini dove, nel 1924, vennero accolte prima la Scuola di specializzazione in pediatria, due anni di corso tenuti interamente all’interno della Clinica, e poi i corsi di Puericultura. Non appena avviati i corsi, Edmea si iscrisse a entrambi, diplomandosi rispettivamente nel 1927 e nel 1928, e risultando la prima pediatra della città.
Nel 1926 vinse un concorso pubblico per un posto come aiuto pediatra presso l’Ospedale degli Esposti, l’antico brefotrofio, dove lavorò come «specialista delle malattie dei bambini» e a cui dedicò molte energie per migliorarlo. Nei locali degli Esposti fece approntare camere di allattamento per lattanti sani conviventi con la madre o con la balia; fece arredare corsie di tipo ospedaliero per i malati come in un moderno reparto di neonatologia e modificò il servizio delle cucine per adeguarlo alle necessità alimentari dei bambini. In questo modo riuscì ad allestire per i piccoli immaturi uno dei primi servizi della città, sia pure in modo “artigianale”, focalizzando l’attenzione sua e dei suoi collaboratori su un piano d’igiene globale e sull’allattamento, dando sempre la preferenza al latte materno. Combatté la mortalità infantile con tutti i mezzi diagnostici e terapeutici a disposizione, diede il via a un servizio ambulatoriale gratuito frequentato assiduamente non solo da madri e bambini assistiti al brefotrofio. Il suo impegno incessante venne riconosciuto con la nomina di direttrice del brefotrofio con il titolo di «Comprimaria pediatra».
Una libera professionista che deve sopravvivere alla guerra
Edmea continuò a collaborare con la Clinica pediatrica fino al 1933, quando decise di dedicarsi esclusivamente alla libera professione lasciando la Clinica con il titolo di «second professor of hospital». Sempre nel 1933 si sposò con Carlo Luigi Emiliani, specialista in medicina interna, prima Primario poi direttore sanitario all’Ospedale Maggiore. Dalla loro unione nacque la figlia Alberta.
Avviò la libera professione aprendo due differenti ambulatori in città, l’ambulatorio privato e un secondo per i meno abbienti, in memoria del suo Maestro Francioni. A questi se ne aggiungerà un terzo, negli anni Sessanta. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale non smise di lavorare nei suoi ambulatori. Nel 1944, quando i bombardamenti a Bologna si fecero più insistenti e pericolosi, la famiglia sfollò a Caselle di San Lazzaro. Qui con l’aiuto del marito e di un collega continuò a svolgere la professione senza dimenticare nessuno dei suoi piccoli pazienti rimasti a Bologna: con l’automobile – fu tra le prime donne a Bologna a prendere la patente – face spesso la spola Caselle-Bologna per assistere i suoi pazienti e non si scoraggiò quando l’auto le venne requisita dai tedeschi, continuando a spostarsi in bicicletta o a piedi. Da non dimenticare il suo impegno per salvare i suoi pazienti, e non solo, dalla persecuzione razziale, com’è capitato ai figli della famiglia Todesco, nascosti in casa Emiliani-Pirami e nottetempo fatti trasferire fuori città.
Per tutta la sua carriera non abbandonò mai lo studio, la volontà di alleviare le sofferenze dei suoi pazienti fu sempre il primo motivo che la spingeva a migliorarsi e a ricercare nuovi metodi di cura. Un evento particolare è degno di nota: all’arrivo degli alleati in città riuscì a ottenere alcune dosi di penicillina. Pare che si stata proprio lei la prima tra i medici a utilizzare la penicillina in ambito pediatrico a Bologna.
L’impegno per l’emancipazione delle donne
Agli inizi degli anni Cinquanta il forte senso civile e morale spinsero Edmea a impegnarsi per l’emancipazione delle donne, contribuendo a fondare la sezione bolognese dell’Associazione Italiana Dottoresse in Medicina (AIDM), di cui sarà presidente nazionale nel 1955, e del Club Soroptimist, di cui sarà la prima presidente. Per l’AIDM conierà il motto dell’associazione, Matris animo curant, e lo stemma raffigurante la dea greca della salute e dell’igiene Igea. In occasione dell’XI Congresso Nazionale dell’AIDM, Edmea sottolineò il ruolo delle donne medico, professione che «a noi [le donne] meglio si addice perché ha bisogno di essere esercitata con animo pronto ad ogni sorta di sacrificio e con totale dono del cuore se si vuole che essa raggiunga la massima efficienza. […] Le donne animo matris curant! Sì, con animo di madre che non conosce confini al proprio atto d’amore».
Si distinse assieme al marito in ambito civile nel 1966 quando, a seguito dell’esondazione dell’Arno a Firenze, accorsero in aiuto alla popolazione ricevendo per questo il Premio della Bontà nel 1968. Negli stessi anni aprì il Centro di Riabilitazione per i piccoli spastici di età superiore ai 14 anni, per cui riceverà la Medaglia d’Oro dal Comune di Bologna in occasione del decennale dall’apertura. La sua professionalità, il suo intuito diagnostico e l’attenzione per i problemi di ordine clinico le fecero guadagnare la fiducia dei suoi pazienti e della comunità medica bolognese. Un grande riconoscimento fu l’elezione, nel 1952, quale membro del Consiglio dell’Ordine dei Medici, prima donna a ricoprire tale carica.
Molte sono le testimonianze e i ricordi di quanti sono stati curati da “la Dottoressa”, che riportano il ritratto di una professionista che ha esercitato la medicina non solo a scopo scientifico, ma con finalità prevalentemente curative. Per lei la cura del malato era intesa anche come cura dello spirito, senza che venisse mai tralasciato l’aspetto sociale della malattia. Gli anni di lavoro al brefotrofio e alla Clinica pediatrica le permisero di esercitare le sue doti di osservazione del paziente ospedalizzato che poi applicherà per tutta la sua vita di medico. L’attenzione verso aspetti a volte non considerati primari dalla medicina dell’epoca, come ad esempio l’alimentazione e l’importanza dell’allattamento al seno materno, fecero di lei una vera pioniera.
Colpita da un ictus, Edmea morì il 31 dicembre 1978.
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