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Distrofie muscolari, individuato un gene chiave per future terapie cellulari

Osservazioni importanti per un futuro screening di pazienti effetti da distrofia. I risultati pubblicati su Nature Communications.

3995218201_90f57e7ed7_oRICERCA – Le distrofie muscolari hanno ancora oggi esiti molto severi. Il muscolo scheletrico si atrofizza via via che il tempo passa, fino a compromettere la capacità motoria delle persona colpita, e nei casi più gravi, come per la malattia di Duchenne, arrivando a causare insufficienza cardio-respiratoria, che è la ragione finale della morte dei pazienti.
A oggi non esiste una cura definitiva per le distrofie muscolari, ma una strada possibile è certamente rappresentata dalle cellule staminali, in particolare da una classe di staminali adulte che si chiamano mesoangioblasti.
Oggi un team dell’Università di Milano ha scoperto un gene, PW1/Peg3, che conferisce a queste cellule due fondamentali caratteristiche: anzitutto di differenziarsi nelle cellule del muscolo scheletrico, e poi di riuscire ad attraversare le pareti dei vasi sanguigni per andare a rigenerare le fibre muscolari danneggiate. I risultati sono stati pubblicati su Nature Communications.
“Quest’ultimo aspetto è assai rilevante – spiega Graziella Messina, responsabile di questo studio – perché significa che si può utilizzare quello che si chiama approccio eterologo, che consiste nell’isolare le cellule di una persona sana e iniettarle nel malato con la certezza che esse arriveranno lì dove devono arrivare, cioè nel muscolo danneggiato.”

Nel dettaglio, gli scienziati hanno identificato in PW1/Peg3 un gene che guida queste cellule staminali a differenziare in cellule del muscolo e in questo modo a recuperare il fenotipo distrofico. “Abbiamo notato che il gene PW1 è essenziale nel determinare la capacità di queste cellule di attraversare le pareti dei vasi e di generare fibra muscolare sana, poiché quando silenziato le cellule non erano più in grado di raggiungere il muscolo danneggiato” prosegue la Messina. “Questa è una scoperta molto importante dal punto di vista biologico, soprattutto per usare questo gene come screening per identificare in futuro le popolazioni di mesangioblasti migliori da usare nella terapia cellulare delle distrofie muscolari.”
Le distrofie muscolari infatti sono una classe di patologie con diversi gradi di estensione e gravità: esistono diverse forme di distrofia, a seconda dell’area colpita, e la Duchenne è la più grave, dal momento che colpisce tutto l’apparato muscolare.
Al momento la ricerca, che ha ottenuto risultati significativi su modelli distrofici murini e di cane, è in fase di trial clinico I/II su bambini affetti da Distrofia Muscolare di Duchenne, trial attivo e guidato dal Prof. Cossu presso l’Ospedale San Raffaele di Milano,. “In realtà lo scopo del trial clinico è verificare la sicurezza di queste cellule sull’uomo, prima ancora di valutarne gli effetti positivi sulla malattia – precisa la Messina – siamo cioè in una fase ancora preliminare, ma molto incoraggiante.”

Anche se si stanno studiando pazienti affetti da Duchenne, in realtà l’obiettivo di questo tipo di ricerca è infatti più ad ampio raggio, trovare cioè il modo di rigenerare i muscoli danneggiati in tutte le forme di distrofia. Il problema però è che ad oggi la medicina non possiede una risposta corroborata a una domanda di fondo: che cosa distingue davvero un muscolo da un altro. Altrimenti detto, perché alcune forme di distrofia si “limitano” a una specifica area senza toccare le altre, mentre in altri casi la malattia è totale. “La domanda è primaria, senza dubbio – spiega la Messina – e possiamo dire che una possibile risposta ha cominciato a fornircela l’epigenetica, quella branca della biologia che non considera soltanto la struttura dei geni, ma anche i meccanismi di controllo e di espressione genica. Per esempio la distrofia Facio-scapolo-omerale caratterizzata da un forte condizionamento epigenetico nonostante i geni strutturali del muscolo siano correttamente espressi. Per questo il filone epigenetico è oggi un fattore importantissimo nello studio delle distrofie”.

Sebbene si sia ancora in una fase preliminare della ricerca, tanto che solo a breve usciranno i primi risultati del trial clinico, una cosa è certa: dal punto di vista pratico queste osservazioni sono molto importanti per quanto riguarda lo screening di questi pazienti, cioè la possibilità di individuare il candidato migliore, cioè quello con livelli di PW1 più alti, per combattere la distrofia attraverso un approccio eterologo.”

@CristinaDaRold

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Sue Clark, Flickr

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.