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L’Indonesia va a fuoco

Almeno 19 morti e mezzo milione di persone con problemi di salute legati alla respirazione, mentre foreste e fauna vengono spazzati via: l'emergenza ambientale continua, ma i media guardano altrove

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APPROFONDIMENTO – In alcune città dell’Indonesia la visibilità è talmente scarsa che oltre i 30 metri di distanza ogni cosa è indistinguibile e si perde nella nebbia, nell’haze. Almeno 19 persone sono già morte, più di mezzo milione ha sviluppato problemi di salute respiratoria a causa dell’inquinamento dell’aria, 20mila i chilometri quadrati di foresta andati a fuoco e perduti per sempre. Monossido di carbonio, metano, ozono, come racconta il fotografo di National Geographic (rientrato da poco dall’isola del Borneo) sono sufficienti dieci giorni in loco per guadagnare un’irritazione polmonare, persino se si indossa una maschera antigas per proteggersi. Ad esempio una delle 700mila maschere che la Croce Rossa indonesiana ha già distribuito sul territorio.

«E i media? Parlano di cosa ha indossato Kate Middleton alla premiere del nuovo film di James Bond, dell’ultima idiozia detta da Donal Trump o di chi è stato eliminato nella puntata di Halloween di Ballando con le Stelle. Il grande dibattito della settimana, quello che ha dominato le notizie di praticamente tutto il mondo? Le salsicce: fanno davvero così male alla salute?»

Così sulle pagine digitali del Guardian -che sta seguendo l’emergenza indonesiana giorno dopo giorno- il giornalista e attivista George Monbiot (@GeorgeMonbiot) riassume come i media in generale stiano perlopiù guardando da un’altra parte, mentre l’Indonesia brucia. Come dargli torto? L’impressione, anche qui, è che dopo una prima ondata di terrore mediatico e sensazionalismo legati all’olio di palma, non per gli impatti delle coltivazioni indonesiane quanto per gli effetti sulla salute umana, l’attenzione sia crollata nuovamente facendo calare il sipario sull’Indonesia che, in questo momento, affronta la peggior stagione degli incendi dal 1994. E ogni giorno emette più anidride carbonica dell’intera economia USA (come riporta Bloomberg ha ampiamente superato anche le emissioni della Cina).

Come abbiamo fatto per chiarire la ricerca di acqua su Marte da parte degli scienziati NASA, vi proponiamo una lente di ingrandimento sull’Indonesia attraverso i punti principali. La responsabilità dell’emergenza ambientale in corso è interamente umana.

Haze: La cortina di fumo e calore generata dagli incendi che stanno facendo a pezzi l’Indonesia. Questa “foschia” giallastra ha già fatto parecchia strada, avvolgendo ad esempio la città di Singapore, che a fine settembre ha chiuso le scuole primarie e secondarie e iniziato a distribuire maschere antigas ai cittadini, incoraggiandoli a rimanere il più possibile all’interno delle abitazioni. Il livello di pericolosità dell’inquinamento è stato misurato in PSI con il Pollutant Standards Index: per tutto settembre e parte di ottobre a Singapore il livello è rimasto intorno ai 100 PSI (pericoloso per le fasce di popolazione più sensibili come anziani e bambini) per poi ridursi gradualmente, ma nelle giornate peggiori ha toccato livelli tra i 268-320 PSI, oscillando cioè da very unhealthy ad hazardous. Ogni giorno la National Environment Agency di Singapore rilascia un aggiornamento, segnalando hotspot e previsioni: negli ultimi giorni la situazione è migliorata grazie all’aumento delle precipitazioni, e nonostante sia previsto un nuovo aumento nell’haze le autorità sono abbastanza ottimiste. Il 22 settembre un impressionante video di Channel NewsAsia mostrava la situazione a Palangkaraya (nel Kalimantan), che ha toccato picchi di oltre 1900 PSI.

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Incendi: In base ai dati dei satelliti NASA (la foto, sempre dell’agenzia spaziale americana, mostra l’entità dell’haze) quest’anno in Indonesia gli incendi sono stati più di 120mila. Hanno iniziato a diminuire solamente a partire dal 26 ottobre, grazie all’arrivo di intense piogge. Incendiare i terreni per ripulirli dagli scarti degli ultimi raccolti è considerato il modo più efficace (soprattutto il più economico) per poter subito ricominciare a coltivare. Costruendo dei canali artificiali si blocca il “rifornimento” d’acqua che normalmente raggiunge le peatland forests, foreste torbiere, rendendo più rapido il divampare delle fiamme che vengono causate intenzionalmente dagli agricoltori e continuano a bruciare per giorni. La legge indonesiana vieta espressamente di ricorrere a questa tecnica -anche per quanto riguarda le piantagioni di olio di palma– ma viene violata portando alle conseguenze che oggi vediamo. La stagione degli incendi in corso è ancor più esacerbata dagli effetti di El Niño, che ha colpito con più forza rispetto al 1997, lasciando dietro di sé un Sudest Asiatico dal clima estremamente secco e caldo.

ISPO: L’ambizioso obiettivo del governo indonesiano è riuscire a certificare il 70% dei suoi produttori di olio di palma -compresi e soprattutto i piccoli produttori- entro gli standard ISPO (Indonesian Sustainable Palm Oil) entro il 2020. A differenza di altre iniziative su base volontaria, come il Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO), adeguarsi a questa certificazione sarebbe obbligatorio per tutti i produttori dall’istituzione della no-profit, nel 2009. Sarebbe.

Joko Widodo: Il presidente dell’Indonesia, che nell’ultimo periodo si è recato a Sumatra per affrontare in loco l’emergenza terminando prima del previsto una visita alla Casa Bianca. Il suo operato è stato ampiamente criticato, ad esempio dagli studenti che nella città di Pekanbaru hanno manifestato chiedendo provvedimenti severi contro i responsabili e indagini a tappeto per verificare le concessioni fatte alle società che coltivano olio di palma in Indonesia. L’emergenza, riporta il Guardian, è già costata al governo indonesiano oltre 30 miliardi di dollari ($).

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Olio di palma: Sono molte le aziende coinvolte nella coltivazione di palma da olio (Elaeis guineensis) in Indonesia, specialmente a Sumatra e nell’area della provincia di Kalimantan (in foto, i pompieri cercano di domare gli incendi a Banjarbaru), in cui sorge la città di Palangkaraya, ora uno dei luoghi più inquinati del pianeta. L’Indonesia e la Malesia sono i maggiori produttori di olio di palma e sono in corso indagini per identificare le società considerate “potenzialmente responsabili”, ovvero quelle che hanno in concessione terreni nelle zone più interessate dagli incendi, e nonostante la legge lo proibisca sono sospettate di gestire le coltivazioni a suon di fiamme. La maggior parte delle concessioni, secondo Friends of Earth Indonesia, riguarda proprio le peatland forests, il prezioso habitat delle foreste torbiere. Sono sette le persone già agli arresti, ma il ministro Luhut Pandjaitan ha dichiarato che non si faranno i nomi delle società coinvolte.

Oranghi: Se a chi produce i beni che consumiamo ogni giorno la coltivazione di palma da olio risulta molto conveniente, come spesso lo è per noi acquistare prodotti che l’olio lo contengono, qualcuno che sta pagando un prezzo salato c’è. E non ha voce. È il prezioso e ora devastato habitat delle foreste indonesiane insieme a tutti i suoi abitanti, specialmente gli oranghi, come quelli che vivono sull’isola del Borneo. Una specie endemica, considerata endangered secondo la Lista Rossa IUCN dal 2000: negli ultimi 60 anni si stima che la presenza di questi animali sia crollata di oltre il 50% proprio a causa della distruzione dell’habitat per convertire la foresta in coltivazioni. In natura, in base all’ultima indagine (condotta, va ricordato, tra il 2002 e il 2003 da due diversi gruppi di ricerca) ne rimarrebbero tra i 45mila e i 69mila.

Stranamente neanche immagini come questa, che negli ultimi due giorni ha fatto il giro del mondo, sono riuscite più di tanto a distogliere l’attenzione pubblica dall’ansia per l’olio di palma nei biscotti e a portarla verso la problematica della sostenibilità. Laddove -insieme al disboscamento illegale per destinare il legno ad altre industrie-  la coltivazione intensiva di palme sta causando il disastro vero, e volontari come gli affiliati a IAR (International Animal Rescue) mettono a rischio la propria salute per salvare gli animali da un inferno di fiamme. Respirando un inquinamento che mette a dura prova la salute di un primate almeno quanto strema la nostra. Recuperare animali spesso terrorizzati, oltre che in pericolo, non è facile. Come non lo sono le operazioni necessarie a riportare gli oranghi in natura dopo averli rimessi in sesto (qui un video di IAR), con la consapevolezza che aree oggi sicure potrebbero prendere fuoco nei giorni a venire.

Oltre al rischio di ustioni “I piccoli oranghi prendono l’influenza, la tosse e soffrono di diarrea”, ha raccontato Monterado Fridman di The Borneo Orangutan Survival Foundation a ABC Australia, mentre tra gli animali salvati dagli incendi vi sono vari giovani che soffrono di problemi respiratori acuti. Vicino al Nyaru Menteng Orangutan Sanctuary, che dovrebbe essere un luogo protetto, come segnala Greenpeace Indonesia sono già state piantate nuove palme. Proprio laddove fino a poco tempo fa divampavamo le fiamme. Ma il territorio non risulta concesso per la coltivazione.

@Eleonoraseeing

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Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.
Crediti immagine: Alejo Sabugo, IAR Indonesia

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".