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Coralli sempre più bianchi, un regalo del cambiamento climatico

Un evento di sbiancamento non è letale per i coralli, ma li mette a dura prova e in condizioni di forte stress: le ultime ricerche scientifiche hanno studiato le barriere più resilienti, per carpirne "i segreti" e applicarli nella conservazione

Le strategie in atto per proteggere le barriere coralline attualmente sono insufficienti, data la grave minaccia che devono affrontare a livello globale per il cambiamento climatico. Crediti immagine_ ilee_wu, Flickr

APPROFONDIMENTO – Nei primi mesi dell’anno la situazione delle barriere coralline australiane ha subito un picco senza precedenti: al largo di Cape York, nella parte Nord-orientale dell’Australia, il 50% dei coralli è stato colpito da bleaching, lo sbiancamento, che per alcuni di loro ha causato la morte dopo mesi a bagno in acque sempre più calde. Un evento di bleaching non è letale, ma mette il corallo in condizioni di forte stress e ne aumenta il rischio di morte. A causare questo fenomeno, gli scienziati allertano da anni, sono principalmente i cambiamenti climatici, e gli eventi meteorologici estremi che provocano. Tra tutti El Niño, che ha largamente contribuito agli eventi più recenti: nel corso del 2014, a “sbiadirsi” è stato il 12% delle barriere coralline del pianeta, metà delle quali (qualcosa come 12.000 chilometri quadrati) potrebbe scomparire per sempre. Un destino che le altre barriere coralline rischiano di seguire nello sbiancamento più grave che si sia mai visto, in corso ormai da due anni.

Ma cos’è di preciso questo bleaching? I coralli vivono in simbiosi con delle minuscole alghe unicellulari, le zooxantelle, che forniscono loro non solo nutrimento ma il caratteristico colore acceso che tutti associamo alle meravigliose immagini delle barriere coralline. Immagini variopinte nei toni del rosso, dell’arancione, del rosa, ma che per enormi porzioni di barriera sono ormai solo un ricordo. Quando le temperature aumentano anche di soli 2°C sopra la media, infatti, l’apparato fotosintetico delle zooxantelle va in tilt e produce grandi quantità di specie reattive dell’ossigeno. Così i coralli si vedono costretti a espellerle, perdendo la propria fonte di cibo e il colore in un colpo solo. Lo stress può avere diversa entità: se è lieve i coralli possono gradualmente riprendersi, se è grave significa andare incontro alla morte.

Con eventi climatici sempre più estremi, purtroppo, la Grande Barriera Corallina australiana rischia di perdere la capacità di adattarsi al fenomeno dello sbiancamento. Per la prima volta, quest’anno, uno studio su Science ha dimostrato che la probabilità di poter sopravvivere risiede proprio nell’“allenarsi” con periodi nei quali l’acqua è sì più calda della media, ma non tanto calda da causare il bleaching. Abituandosi con queste temperature i coralli hanno una possibilità di ripresa, ma queste “ondate tiepide” rischiano di essere sempre meno frequenti a causa del riscaldamento globale. Che priverà le barriere della fase di prova esponendole da subito a temperature molto alte. Anche l’acidificazione degli oceani -con un pH sempre più basso a causa delle emissioni di gas serra, e della conseguente anidride carbonica che raggiunge l’acqua-, contribuisce a rendere la vita dura per i coralli, che faticano a costruire i loro scheletri di carbonato di calcio.

Gli eventi che hanno colpito l’area di Cape York, una porzione di barriera considerata tra le più incontaminate e preziose, hanno portato il governo australiano a istituire lo stato di emergenza. Oltre a essere un patrimonio naturale (è un sito Patrimonio dell’Umanità UNESCO) la Grande Barriera Corallina australiana è una risorsa enorme per il turismo -dunque per il benessere del Paese-, garantendo enormi introiti per l’economia locale e almeno 70000 posti di lavoro. La barriera ospita più di 1500 specie di pesci, sei delle sette specie di tartarughe marine del pianeta e 30 specie tra delfini e balene. In prima linea nella ricerca scientifica e nelle attività di conservazione delle barriere c’è l’ARC Centre of Excellence for Coral Reef Studies, alla James Cook University. È anche opera loro uno studio pubblicato pochi giorni fa su Nature, che ha individuato nelle barriere di tutto il mondo 15 bright spots, ovvero punti nei quali i coralli non stanno male come dovrebbero e ospitano un numero di pesci del tutto inaspettato. Un possibile insight per capire meglio lo stato delle barriere del pianeta ed elaborare piani di gestione per proteggerle. O meglio, salvarle.

38 ricercatori, guidati dal professor Josh Cinner, sono arrivati alla scoperta dopo aver condotto oltre 6000 indagini in 46 Paesi. Come spiega Cinner in un comunicato, “per essere chiari, questi bright spots non sono necessariamente barriere incontaminate, ma piuttosto barriere con più fauna ittica di quanta dovrebbero, date le pressioni in atto” e gli elementi socio-economici riscontrati nelle varie aree come l’aumento della popolazione, la povertà e le condizioni ambientali sfavorevoli. “Volevamo sapere perché queste barriere fossero riuscite a ‘superare i propri limiti’, diciamo così, e se ci sono lezioni che possiamo imparare da loro per evitare il degrado spesso associato alla pesca intensiva”. Delle barriere che non solo sopravvivono ma stanno bene, nonostante le attività umane, offrono il potenziale di guardare il problema da una nuova prospettiva. In molte di queste aree di successo la popolazione è intensamente coinvolta nella gestione, portata avanti con pratiche che i ricercatori definiscono “tradizionali”, oltre al fatto che i diritti di sfruttamento sull’area sono rimasti a livello locale.

Molti esperti, compreso il co-autore di Cinner Nick Graham della Lancaster University, concordano sul fatto che le strategie in atto per proteggere le barriere sono insufficienti, data la grave minaccia che devono affrontare a livello globale. Oltre ai 15 punti virtuosi, gli scienziati hanno catalogato anche 35 dark spots, aree in cui le condizioni dei pesci sono ben peggiori di quanto si aspettavano. Tutte accomunate da aspetti come la pesca intensiva con reti e un facile accesso a strutture con freezer, per accumulare il pescato da vendere, incoraggiando i pescatori a prelevarne enormi quantità.

Noi cosa possiamo fare? Tutti gli scienziati che lavorano nella conservazione delle barriere coralline sono d’accordo nel sostenere che i governi dovrebbero regolare il mercato in modo da garantire la tutela degli oceani e la loro corretta gestione, ma che anche i consumatori, nel loro piccolo, possono fare la propria parte. Ad esempio scegliendo pesce proveniente da fonti sostenibili certificate e non acquistando quello pescato illegalmente al di fuori delle regolamentazioni. Come confermano i bright spots, le popolazioni che vivono in prossimità delle barriere -e che da queste traggono il loro sostentamento in modo sostenibile- sono un’ulteriore risorsa per gestirle e proteggerle.

@Eleonoraseeing

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".