Un luogo di lavoro migliore? È nell’interesse dei dipendenti, ma anche dei manager
Sindrome da burnout, mindfulness, smart working, open space: ruota intorno a questi termini inglesi il dibattito su come migliorare le condizioni di lavoro. Facendo guadagnare anche l'azienda.
APPROFONDIMENTO – Quando si tratta di benessere sul posto di lavoro, ognuno ha il suo punto di vista. E se le opinioni cambiano di collega in collega, quando si passa alla percezione dell’ambiente da parte di dipendenti e manager il quadro cambia ancora. La compagnia Oxford Economics, per esempio, ha condotto un’indagine (When the walls come down) su entrambe le categorie di lavoratori per scoprire, tra i vari aspetti, come si lavora in un ufficio open-space. Le differenze balzano subito all’occhio: solo il 35% dei dirigenti pensa che il rumore possa ridurre la soddisfazione e la produttività dei dipendenti, ma è il 53% dei dipendenti che ritiene di soffrirne le conseguenze. Il 63% dei dirigenti pensa che i propri dipendenti abbiano le capacità per filtrare le distrazioni sul lavoro, mentre solo il 41% è convinto di esserne in grado.
Quindi niente open-space, tiriamo su i muri come prima? Forse no, visto che stare a stretto contatto con i colleghi sembra far sì che riusciamo a concludere i progetti fino al 32% più rapidamente rispetto a quando ci lavoriamo con qualcuno “a distanza”. La vicinanza fisica significa comunicare di più anche per via digitale, dicono le indagini di Sociometric Solutions, al punto che gli scambi di email tra colleghi in questa situazione sono fino a quattro volte più frequenti (il che, effettivamente, potrebbe essere un disincentivo per molti). D’altronde la privacy e la capacità di concentrarsi sono solo uno degli aspetti costantemente nel mirino in un periodo storico in cui cambia il concetto stesso di lavoro, e con esso l’idea di come il luogo di lavoro dovrebbe essere e di quanto sia necessaria la nostra presenza in ufficio.
La discussione principale – e in continua evoluzione, con la bilancia che pende dal lato della flessibilità – resta proprio quella tra lavoro in remoto a confronto con lavoro in ufficio, discussione che comincia ad arricchirsi di contributi scientifici interessanti e a volte inaspettati. Come un’indagine di Kevin Rockmann e Michael Pratt, che allerta sui rischi di quello che potremmo chiamare “ufficio deserto”, ovvero di quanto rimane del lavoro di squadra una volta che in loco rimane solo una manciata di individui, magari scollegati tra loro nelle mansioni, e che dunque non traggono benefici dalla reciproca presenza.
Tra le tecniche per migliorare il lavoro di squadra una in particolare è entrata a gamba tesa negli ultimi anni. Si tratta della mindfulness, vivere il “qui e ora” concentrandosi su quello che si sta facendo e basta. Un approccio (molto di moda) a lungo considerato mistico, spirituale e poco scientifico, ma che si sta lentamente arricchendo di evidenze in merito agli effetti positivi che comporta, anche sul lavoro. Negli uffici di Google, ma anche alla Mayo Clinic, è ampiamente sfruttata. Proprio per togliere la persistente patina di esoterismo, un gruppo di ricercatori ha elaborato una revisione di oltre 4000 paper sui vari aspetti della mindfulness. Hanno concluso che riesce a migliorare tre specifiche componenti dell’attenzione – la stabilità, il controllo e l’efficienza – aiutando la mente a focalizzarsi sul presente e a lavorare meglio. I partecipanti agli studi che avevano completato un allenamento di mindfulness rimanevano vigile più a lungo sia nei compiti di ascolto che in quelli visivi. Pur trattandosi di una qualità individuale, scrivono gli autori dello studio, la mindfulness può migliorare le relazioni anche sul luogo di lavoro, promuovendo maggior empatia in chi la pratica e migliorando quei processi che richiedono una direzione efficace ma anche un buon lavoro di squadra.
Ma la questione è ancora più articolata. “Sul posto del lavoro ci sono elementi concreti che possono modellare le funzioni cognitive: alcuni li puoi vedere, o toccare, altri no”, spiega Joseph Grzywacz, in uno studio sul Journal of Occupational and Environmental Medicine. Nel corso degli anni gli scienziati si sono interrogati più volte su quali fossero i fattori più dannosi per il nostro cervello, se quelli materiali – come la sporcizia in ufficio – o quelli invisibili come una mancanza di stimoli e motivazione nei compiti. “Siamo riusciti a mostrare che entrambi contano nella salute cognitiva dell’adulto”, con conseguenze sul benessere a lungo termine.
Basandosi sui dati di quasi 5000 adulti tra i 32 e gli 84 anni, Grzywacz e il suo gruppo hanno potuto dimostrare che chi sul lavoro ha modo di affrontare sfide, gestire un ambiente complesso e migliorarsi, per esempio acquisendo nuove abilità, mantiene performance cognitive migliori via via che invecchia, specialmente le donne. A beneficiarne sono la memoria, ma anche la capacità di completare i compiti in modo efficiente, di gestire il proprio tempo e di mantenere alta l’attenzione, applicando in un secondo momento le cose imparate. Secondo Grzywacz si tratta di un esempio concreto, applicato al nostro cervello, del modo di dire “if you don’t use it, you lose it”, se non lo usi lo perdi. Il secondo risultato ottenuto in quest’indagine riguarda un aspetto di quelli che si vedono a occhio nudo, ovvero la sporcizia: sia uomini che donne, quando il loro lavoro li espone a un ambiente sporco, vanno incontro a declino cognitivo.
Sulle conseguenze per la salute a breve termine, una parola che sentiamo sempre più spesso è burnout, esaurimento, crollo. Quello che succede quando lo stress lavorativo raggiunge il massimo e si arriva a un problema patologico. La Leeds Beckett University ha raccolto in un database tutti gli interventi più diffusi per prevenirlo e trattarlo (come workshop, occasioni di formazione, programmi cognitivo-comportamentali…) ed è arrivata alla conclusione che agire sull’ambiente di lavoro è più efficace e duraturo nei risultati rispetto al concentrarsi sulla singola persona. Ma nelle aziende solitamente avviene l’esatto contrario. Secondo i dati del Labour Force Survey nel Regno Unito, sul biennio 2013-2014, lo stress, l’ansia e la depresisone legati al lavoro costituiscono il 39% dei casi di patologie che colpiscono il lavoratore. Una percentuale che ha spinto i ricercatori ad attirare l’attenzione su cosa ancora non funziona sia dal punto di vista del trattamento sia da quello della prevenzione, fondamentale quanto spesso trascurata.
Gli interventi pensati per ridurre i sintomi e l’impatto del burnout, considerato una vera e propria sindrome che colpisce il lavoratore – nella sua individualità, nell’impegno sul lavoro e nelle emozioni che vi associa – vengono condotti per la maggior parte sui singoli individui, su piccoli gruppi, trascurando il livello superiore. Che andrebbe preferito o, ancora meglio, integrato, modificando il carico di impegno e anche il flusso lavorativo, le pratiche da rispettare nel quotidiano. Combinando i due approcci, scrivono gli autori nel rapporto, i risultati sono migliori e durano più a lungo, perché aiutano a instillare un vero cambiamento nel sistema lavoro: l’ambiente diventa più partecipato, la comunicazione è più aperta ed è più facile che gli impiegati vengano coinvolti nelle decisioni e nella pianificazione aziendale. “Ci sono prove scientifiche su cosa funziona e cosa no per trattare il burnout e lo stress legato al lavoro, ma sappiamo molto di meno riguardo a come prevenirlo, prima di tutto”, commenta James Woodall, della Leeds Beckett.
Affrontare anche questo aspetto aiuta non solo il benessere dell’individuo, ma la comunità. Come spiega Anne-Marie Bagnall, collega di Woodall e coinvolta nella stesura del rapporto, “è di grande importanza anche dal punto di vista della sanità pubblica e da quello delle aziende con l’obiettivo di ridurre l’assenteismo e migliorare la produttività”. Il burnout non è solo l’esito di un processo di stress prolungato, ma è “associato a conseguenze negative per la salute come depressione, dolore muscolo-scheletrico, diabete di tipo 2, patologie cardiovascolari e mortalità prematura”, prosegue Bagnall. L’obiettivo finale dovrebbero essere luoghi di lavoro che contribuiscono a migliorare la salute fisica e mentale di chi li vive, e in questo modo diventano un valore aggiunto per l’azienda: una forza lavoro in salute si assenta di meno per malattia, ha bisogno di un ricambio meno frequente e lavora meglio. “I dirigenti non possono permettersi di aspettare fino a quando l’esaurimento ormai è successo; è nel loro interesse mettere in campo interventi che possano prevenirne le cause principali, compreso lo stress e le condizioni che colpiscono muscoli e ossa”.
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