L’impronta umana pesa sui Paesi in via di sviluppo
Aggiornata la mappa dell'impronta umana sull'ambiente: l'attenzione deve restare alta nelle aree ad alta biodiversità e nei Paesi con un reddito pro capite medio-basso.
AMBIENTE – Ogni specie animale o vegetale esistita ha lasciato tracce del suo passaggio sul pianeta, ma l’impronta umana è forse l’unica ad aver avuto una capacità distruttiva sugli ecosistemi e la biodiversità. Uno studio pubblicato su Nature Communications dimostra che l’impronta ecologica umana non è cresciuta più rapidamente dell’aumento di popolazione, nel periodo compreso tra il 1992 e il 2009. Lo human footprint è però pesato maggiormente negli ambienti caratterizzati da un più alto livello di biodiversità e nei Paesi dove il reddito pro capite è medio-basso.
Come precisa il World Wild Life, ogni azione quotidiana effettuata dagli esseri umani ha un prezzo per il pianeta. Un prezzo che non si esprime però in denaro, ma in termini di risorse naturali necessarie per espletare una determinata azione. Questo debito con la Terra si esprime attraverso sei parametri principali:
- La misura di emissioni di carbonio, calcolata nei termini di quantità di territorio forestale necessario per assorbire una data quantità di anidride carbonica. Da questo calcolo viene esclusa la quantità di diossido di carbonio assorbito dagli oceani e che contribuisce ad accelerarne il processo di acidificazione.
- La quantità di terreno agricolo necessaria per coltivare le piante utili all’alimentazione, le fibre, la zootecnia, la produzione di materiali quali gomma, soia e l’estrazione di petrolio.
- La quantità di pascoli necessaria per la produzione di carne, prodotti caseari, pellame e lana.
- La quantità di foresta necessaria per la produzione di legname.
- Le zone di pesca, calcolate nei termini della produzione primaria di pesce e frutti di mare pescati in acqua dolce e marina.
- La quantità di suolo occupata da costruzioni e strutture umane, comprese le vie di comunicazione e i trasporti , le abitazioni, le strutture industriali e i bacini creati dalle dighe.
L’impronta ecologica era stata inizialmente misurata e mappata grazie ai dati disponibili dal 1990 in poi, ma da allora la popolazione mondiale è aumentata drasticamente e l’economia è profondamente cambiata.
In questo studio, Oscar Venter e colleghi sono ricorsi a una serie di dataset relativi a diverse tipologie di impatto umano, come la quantità di superfici costruite, le reti stradali, le colture e pascoli, la presenza e la densità di luci notturne, la crescita e la densità di popolazione umana. L’obiettivo era generare una nuova mappa dell’impatto umano sul pianeta, che mettesse in luce anche la variazione di impronta in un intervallo lungo 17 anni.
In questo lasso di tempo, tra il 1992 e il 2009, l’impronta umana è cresciuta mediamente del 9% contro un aumento della popolazione mondiale pari al 23% e una crescita economica pari al 153%. Il 75% del pianeta sta attualmente subendo forti pressioni derivanti dall’impronta umana, che rischiano di compromettere irrimediabilmente habitat, specie e patrimoni naturali. Anche se è molto difficile immaginare che possano esistere luoghi sulla Terra dove l’impatto dell’impronta umana tende a diminuire e non ad aumentare, è pur vero che il tasso di incremento dello human footprint è stato inferiore nei Paesi con un’economia più forte e con politiche anti-corruzione efficaci. Questo dato va però letto in maniera critica, come suggeriscono gli autori: la situazione incoraggiante dei Paesi caratterizzati da una ricchezza maggiore deriva da policy governative adeguate, o dal possibile spostamento della propria domanda in altri Paesi? Un esempio calzante, infatti, deriva dall’Amazzonia: il 40% della carne qui prodotta viene esportata per il consumo europeo.
Sono le regioni caratterizzate dalla presenza di diverse specie in via di estinzione ad aver subito il maggiore incremento della pressione umana sull’ambiente. Tra queste, esistono rare eccezioni, come i deserti dell’Asia centrale e il Borneo centrale. Nonostante esistano luoghi dove l’impronta umana è effettivamente diminuita nel periodo di tempo considerato dallo studio, gli autori evidenziano come il futuro costituisca una sfida senza precedenti, a causa del delicato equilibrio tra esigenze ambientali e sociali che dovrà necessariamente essere trovato.
Alcune decisioni, sottolinea il gruppo di ricerca, devono essere prese ora, prima che sia troppo tardi: secondo i dati presentati dagli autori, infatti, solo il 3% delle aree ad alta biodiversità sarebbe attualmente esente da pressioni umane.
I dati positivi derivano dal fatto che molti Paesi caratterizzati da un’economia forte, dove – come spiegato – l’incremento dell’impronta umana è stato minore che altrove, esportano i propri prodotti agricoli e forestali. In questo modo, le nazioni evitano di esportare la propria domanda a danno dei Paesi in via di sviluppo. Ci sono però alcuni fattori su cui i ricercatori pongono l’accento: lo studio non ha tenuto conto, per esempio, delle esportazioni relative alla domanda energetica e mineraria, che pesano notevolmente sull’ambiente. Inoltre, i ricercatori non hanno potuto tener conto dell’effetto cumulativo dell’impronta umana: esiste una soglia, infatti, oltre la quale si potrebbero verificare effetti accelerati e non prevedibili.
L’auspicio dei ricercatori è che, dati alla mano, questa nuova mappa possa fornire uno strumento utile ai governi, per adottare strategie ambientali consone e dirette alla conservazione della biodiversità.
Leggi anche: La biopirateria: il caso ecuadoriano
Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.