La storia dell’Australia nel DNA degli aborigeni
I genetisti stanno ripercorrendo le tappe delle migrazioni umane attraverso lo studio "ad alta definizione" dei genomi appartenenti alle popolazioni native: ecco il primo studio di questo genere sugli australiani.
SCOPERTE – Grazie al DNA, la storia della nostra specie continua a regalarci colpi di scena. Questa settimana su Nature escono ben tre ricerche che mettono a fuoco le peripezie della famiglia umana dopo l’uscita dall’Africa, e lo fanno grazie a popolazioni native storicamente poco studiate dal punto di vista genetico.
Fra questi si distingue la ricerca di Anna-Sapfo Malaspinas (Università di Berna) e colleghi, che per la prima volta permette di esplorare in dettaglio la storia dell’Australia attraverso il genoma dei suoi primi colonizzatori, gli aborigeni australiani.
Infatti, nonostante le prove archeologiche ci raccontino che Australia e Nuova Guinea sono state colonizzate da migranti 50 000 anni fa, cioè molto prima del’Europa, fino a oggi non erano state effettuate analisi estese che permettessero di mettere in relazione l’eccezionale diversità culturale di questa regione con quella genomica, e tentare in questo modo di ricostruire il popolamento queste territori.
Chiara Barbieri, genetista al Max Planck Institute for the Science of Human History e tra gli autori dello studio, a questo proposito precisa a OggiScienza: “Questo studio non sarebbe stato possibile senza aver intrapreso un lungo percorso di dialogo tra i ricercatori principali e i rappresentanti delle comunità, alcuni dei quali hanno contribuito in maniera tale da essere stati riconosciuti come coautori del lavoro.”
In questo modo i ricercatori hanno potuto analizzare 83 campioni di DNA dei nativi australiani, appartenenti a 9 gruppi di diverse regioni geografiche, oltre a 25 campioni di individui papuani. Questi genomi completi e “ad alta risoluzione” hanno permesso al gruppo internazionale di ricercatori di applicare le più avanzate tecniche di analisi statistica. “Quello che abbiamo scoperto – continua la dottoressa Barbieri – è che gli antenati dei popoli australiani e della Nuova Guinea si sono ‘separati’ dai popoli asiatici ben 58 000 anni fa, poco dopo la divergenza con i popoli africani. Successivamente, circa 37 000 anni fa, un gruppo di fondatori ha iniziato a separarsi da quelli che sarebbero diventati i papuani, per poi colonizzare l’Australia. In concomitanza con gli eventi climatici che hanno portato alla formazione del deserto centrale, gli australiani hanno iniziato a differenziarsi, circa 31 000 anni fa.”
Infatti, secondo i ricercatori, nei nativi sono presenti geni associati alla regolazione degli ormoni tiroidei e dell’acido urico sierico: forse si tratta del risultato di adattamenti rispettivamente al freddo notturno e alla disidratazione, ma per confermare questa ipotesi serviranno ulteriori ricerche.
I dati genetici, però, in questo caso sono difficili da conciliare con le analisi linguistiche. Gli aborigeni parlano in maggioranza lingue della famiglia Pama-Nyungan, che secondo i linguisti non può avere più di 6000 anni. Eppure gli australiani hanno cominciato a differenziarsi ben 31 000 anni fa. Sembrerebbe che questa lingua si sia diffusa nel continente in modo quasi esclusivamente culturale a differenza, per esempio, delle lingue indoeuropee, la cui evoluzione è intrecciata ai flussi migratori di cui il DNA porta evidenti tracce.
Le analisi hanno rivelato anche tracce di incroci con umani arcaici, sia Neanderthal che Denisovani, ma sembra che a forgiare il DNA dei nativi abbia contribuito anche una specie arcaica sconosciuta. “Queste nuove sequenze arcaiche – spiega la dottoressa Barbieri – dovranno essere studiate in dettaglio, ma non sono affatto un risultato inaspettato. La famiglia umana era presumibilmente molto più ‘allargata’ di quanto non ci permetta di stabilire il record fossile, ma grazie alle nuove tecniche di analisi su genomi di alta qualità potremo intravedere il contributo di specie delle quali, forse, non troveremo mai tracce dirette.”
Come scrivono Serena Tucci e Joshua Akey del Dipartimento di Scienze Genomiche della University of Washington nell’articolo di commento che accompagna la tripletta di studi sulla nostra specie, una straordinaria caratteristica umana è il nostro desiderio di viaggiare. Come direbbe Baudelaire abbiamo una “grande malattia” chiamata horreur du domicile, cioè una avversione alla sedentarietà: “[…] sarà necessaria l’integrazione di dati provenienti da discipline tradizionalmente distinte, come linguistica, archeologia, antropologia e genetica, per ripercorrere tutte le tappe prese dai nostri antenati mentre esploravano e colonizzavano il mondo.”
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