Fossili e cambiamento climatico: usare il passato per prevedere il futuro
Elaborare modelli di previsione per il riscaldamento globale non è cosa semplice. Spesso mancano i dati biologici sulle specie, ma secondo i paleontologi i record fossili potrebbero venirci in aiuto, colmando le lacune
AMBIENTE – Complice il cambiamento climatico, la conservazione delle specie è diventata nel tempo una faccenda sempre più complicata. Per tutelare una specie bisogna proteggere anche il suo ambiente naturale, mantenere in salute le reti trofiche delle quali fa parte, conoscere bene la sua biologia. Eppure non sempre abbiamo a disposizione gli strumenti, i mezzi economici o le conoscenze scientifiche per fare al meglio questo lavoro: si stima, per esempio, che poco più del 20% dei modelli di previsione tenga conto dei meccanismi biologici caratteristici di una specie, che si tratti delle curve demografiche, dunque l’oscillazione delle popolazioni negli anni, o della capacità di adattamento. Un elemento cruciale in vista di importanti aumenti nella temperatura che spingeranno sempre più specie verso Nord.
Allo stesso tempo l’attenzione del pubblico – ma anche delle grandi organizzazioni e spesso degli scienziati – è stata spesso catturata dalle specie più carine e carismatiche (il cosiddetto “effetto Bambi“), a discapito di altre magari meno graziose ma dal ruolo ecosistemico altrettanto importante o ancora più a rischio di estinzione. Quando la minaccia è il cambiamento climatico, per esempio, uno degli elementi da considerare è la capacità di adattarsi a nuovi ambienti e risorse e di sopravvivere senza troppi disagi a temperature più elevate di quelle ottimali. Ma come stabilire queste priorità, se a mancare non sono le buone intenzioni ma i dati biologici?
Secondo un gruppo di scienziati, guidato dalla paleontologa Alycia Stigall, i fossili potrebbero tornarci molto utili: quelli in nostro possesso sono un’enorme “biblioteca” dei cambiamenti della biodiversità nel tempo, in grado di raccontare molto anche sugli eventi più catastrofici in cui il numero di specie e la diversità biologica sono colati a picco, o di grandi cambiamenti geografici che hanno permesso alle specie di percorrere grandi distanze allontanandosi dall’areale d’origine. Non solo eventi recenti come quelli legati al ponte di terra sullo stretto di Bering (la “Beringia”, 15-30 000 anni fa) ma anche estinzioni più lontane come quelle dell’Ordoviciano.
Lavorando insieme ai colleghi sulle prove paleontologiche, Stigall ha elaborato un modello che spiega come le specie sulla Terra si diversificano e poi spariscono, mettendo in correlazione i movimenti delle specie generaliste in nuovi areali, i biotic immigration events (BIME) e l’isolamento geografico. Questo modello rappresenta un ciclo ben preciso, che è possibile ritrovare nel corso dei millenni come mostrano tutti i grandi eventi – usati dal gruppo di Stigall come casi studio per verificare la teoria – e potrebbe aiutarci a migliorare i modelli di previsione legati al riscaldamento globale in corso.
Alcuni animali sono generalisti, spiegano gli scienziati, dunque sono in grado di prosperare in ambienti anche molto diversi tra loro e di servirsi di nuove risorse. I fossili ci raccontano che in passato questi animali si sono diffusi su territori molto ampi, occupando interi continenti che poi si sono divisi in “isole” più piccole, separando gli individui in più popolazioni che non entravano più in contatto. Questa separazione ha portato alla nascita di nuove specie, in competizione tra loro per le risorse limitate: per ovviare al problema e riuscire a convivere sullo stesso territorio queste specie si sono specializzate alla sopravvivenza in nicchie ecologiche precise, legate ad ambienti e risorse alimentari differenti.
Se da un lato nuove specie significa aumento della biodiversità, dice Stigall, dall’altro significa anche che queste specie avranno esigenze e caratteristiche via via più specifiche, il che le renderà più vulnerabili e meno adatte a sopravvivere se la loro nicchia ecologica cessasse di esistere o fosse in crisi. Una volta che le isole andranno a formare un nuovo continente, spiega la scienziata, nuove specie generaliste invaderanno le loro nicchie, faranno diminuire la speciazione e di conseguenza ridurranno la biodiversità un’altra volta.
Questo meccanismo non fa che confermare che meno una specie è generalista, dunque più dipende da un ambiente e da risorse specifiche, più avrà bisogno di aiuto di fronte ai cambiamenti imposti dal riscaldamento globale. A cavarsela meglio di tutti saranno quelle già note come specie invasive, che per definizione non sono schizzinose di fronte ad ambienti e cibo diversi dal solito, anzi si ambientano facilmente spodestando quelle autoctone, contagiandole con patogeni che non sono in grado di contrastare, competendo con loro per il cibo e le risorse.
Il pattern, propone Stigall, non fa che ripetersi ancora e ancora, con l’ulteriore difficoltà moderna di tenere in considerazione anche il fattore umano, ovvero il disturbo delle attività antropiche, la caccia, il bracconaggio, il disboscamento, l’inquinamento e via dicendo. Ma sappiamo che “le aree tropicali e stabili, quelle regioni che hanno un clima simile attraverso tutto l’anno, saranno probabilmente le più colpite dall’arrivo di specie invasive”, ha confermato la scienziata all’Annual Meeting of the Geological Society of America. “Poiché i dataset per le specie moderne tendono a essere limitati in termini del numero di specie mappate e delle curve demografiche, noi speriamo di sfruttare i resti fossili per aumentare le nostre conoscenze e usare il passato per prendere decisioni sul futuro”.
Ovviamente ogni singolo evento ha le sue particolarità e nell’Ordoviciano non c’erano disboscamento e frammentazione dell’habitat come li conosciamo oggi. Eppure il ciclo si ripete sempre: anche i resti fossili di tre milioni di anni fa, quando con la formazione dell’istmo di Panama animali terrestri e d’acqua dolce si sono spostati dal Nord al Sudamerica nel “grande scambio americano”, possono aiutarci a prevedere le future migrazioni e a scegliere come investire le risorse per la conservazione.
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