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#NoDPL: la protesta contro l’oleodotto in North Dakota (all’ombra di Trump)

Il futuro dell'oleodotto e delle comunità di nativi dipendono dalle prossime scelte di governo. Le posizioni sull'ambiente del Presidente eletto Trump rischiano di vanificare l'appoggio degli ultimi mesi dell'amministrazione Obama.

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Le proteste contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline sono partite dai nativi americani Sioux e sono cresciute fino a coinvolgere molti cittadini. Crediti immagine: John Duffy

APPROFONDIMENTO – Da qualche mese, alcuni stati centrali degli Stati Uniti stanno rivivendo l’esperienza NYMBY (Not in My Backyard) con una nuova battaglia in difesa dell’ambiente, e non solo.
Al centro dello scontro c’è il Dakota Access Pipeline, l’oleodotto in costruzione in North Dakota che, nelle previsioni, dovrà coprire circa 200 chilometri, dalle raffinerie di Bakken fino agli stati più a sud, in una regione che copre South Dakota, Iowa e Illinois, trasportando una quantità di petrolio che sia aggira attorno ai 550 000 barili al giorno.

Il progetto nasce come alternativa ai trasporti su gomma o treno, per aumentare la velocità e l’efficienza e minimizzare il rischio di incidenti e quindi di impatto ambientale. L’oleodotto, che si prevede debba essere sotterrato per la maggior parte del percorso, non per questo risulta immune da questi rischi: di recente un incidente simile paventato si è verificato in Alabama ed è questa la ragione principale – ma non l’unica – per cui è nato il movimento che si oppone alla sua realizzazione, riconoscibile dalla sigla #NoDPL.

A capo di questa nuova protesta NYMBY ci sono rappresentati dei nativi americani degli stati interessati, la tribù dei Sioux – Standig Rock, che si sono mobilitati per proteggere il valore storico di quelle terre e, soprattutto, le sue risorse idriche. Ma non ci sono solo i nativi a protestare: con il passare del tempo molti altri cittadini si sono uniti alla battaglia, che ha raggiunto toni anche violenti, proprio mentre infuriava la campagna elettorale presidenziale.

I Sioux in guerra contro l’oleodotto, Obama l’unico alleato

I rappresentanti di 90 comunità di nativi americani hanno iniziato a stazionare nei pressi della riserva degli Standing Rock Sioux, a Cannonball, fin dai primi giorni dello scorso aprile. Questa comunità è diventata nel corso dei mesi un vero e proprio villaggio, passando da qualche decina a più di un migliaio di manifestanti fissi.

È stato a fine luglio 2016 che i manifestanti – ribattezzati water protectors, protettori dell’acqua –hanno presentato una querela contro il Dipartimento Militare d’Ingegneria, in risposta all’accelerazione dei lavori nelle vicinanze dei corsi d’acqua, sostenendo che la costruzione è stata autorizzata illegalmente, ignorando la tutela ambientale. Secondo i Sioux è cosa nota infatti che il passaggio dell’oleodotto è particolarmente pericoloso nel tratto che costeggia il Lago Oahe, dove diventa una minaccia per l’approvvigionamento di acqua utilizzata per bere, per irrigare i campi e per alcuni rituali religiosi della riserva, un territorio tradizionalmente sacro alla Grande Nazione Sioux, di grande importanza storica per tutte le tribù.

Inoltre il fiume Missouri, sostengono i manifestanti, è fonte di sostentamento anche per gli altri stati che attraversa, e questa deve perciò essere considerata una battaglia giusta per tutti le comunità che dipendono dalle sue acque. Tra le ragioni della protesta c’è quindi  una rivendicazione di diritti territoriali e sociali, come è avvenuto anche in altri casi per la costruzione di grandi infrastrutture come i telescopi (ne abbiamo parlato qui e qui).

I Sioux, in sostanza, chiedono di essere riconosciuti e interpellati come i proprietari effettivi del territorio coperto dalla riserva, e primi interlocutori dei siti circostanti, ricchi di reperti archeologici e sepolture sacre. A settembre, Dave Archambault Jr., il rappresentante degli Standing Rock Sioux, lo ha dichiarato apertamente anche alle Nazioni Unite a Ginevra. Il sospetto che non venga riservato alla comunità di nativi un trattamento rispettoso e adeguato, vista la portata del progetto e le conseguenze dell’interramento, è rafforzato inoltre dalla diversa scelta fatta dall’Energy Transfer Partners in località Bismark, dove la presenza di una comunità a larga maggioranza bianca e di persone “influenti” ha probabilmente influito sulla deviazione del percorso.

Un approccio “due pesi e due misure” che rende quindi la vicenda più politica che strettamente ambientale, un aspetto amplificato dai giorni di compagna elettorale USA. I sit in e gli scontri, in alcuni casi anche piuttosto violenti, non sono stati ignorati da Barack Obama, il quale in tempi relativamente brevi ha dato segnali di speranza ai manifestanti, dichiarando che è “Dovere per le autorità valutare alternative, soprattutto quando c’è la rivendicazione di risorse da proteggere”.

D’altra parte, ha aggiunto il Presidente, anche i manifestanti hanno un dovere da rispettare, quello di mantenere un atteggiamento pacifico. Lo stesso Obama l’anno scorso aveva già sancito lo stop di un altro controverso progetto per un oleodotto, il Keystone XL . Dopo diversi botta e risposta, tra stop e annunci di ripartenze dei lavori, l’amministrazione Obama (ancora in carica fino a gennaio 2017) ha fatto sapere lo scorso 14 novembre che il progetto non è ancora pronto per un’approvazione definitiva, mentre il Dipartimento d’Ingegneria riferisce che nuovi controlli sono in programma ed è prevista una pausa nei lavori finchè non si giunge a un accordo.

Una battaglia per i diritti, in un clima di cambiamento

Il futuro dell’oleodotto e delle comunità di nativi dipendono quindi dalle prossime scelte di governo. Cosa ne pensa di tutto questo Donald Trump? Come ricordato dal Time, il presidente eletto non si è espresso a riguardo in campagna elettorale, ma le premesse non sono incoraggianti per i manifestanti: Trump ha dichiarato, tra le altre cose, di voler mettere mano al Clean Water Act e ha interessi diretti, sia personali che tra i suoi sostenitori, nella costruzione dell’oleodotto. La preannunciata politica negazionista sul cambiamento climatico di Donald Trump non solo semina paura, ma rischia quindi di vanificare l’appoggio degli ultimi mesi dell’amministrazione Obama.

Oltre a scongiurare il rischio di eventuali contaminazioni delle acque e del suolo, la chiusura dell’oleodotto quanto contribuirebbe in effetti a limitare davvero l’uso dei combustibili fossili e, quindi, a combattere il cambiamento climatico? Ben poco, anche se secondo alcune stime il risparmio di CO2 sarebbe di diverse decine di tonnellate all’anno, si tratterebbe in realtà più di una vittoria simbolica nel quadro generale di un ricambio di risorse energetiche. Gli interessi economici sul breve periodo hanno invece certamente più peso, e per questo la partita potrebbe essere decisa in modo definitivo a breve: la protesta avrà successo se riuscirà a bloccare la costruzione entro gli accordi pattuiti, ovvero entro fine del 2016. Anche solo rimandare l’apertura dell’oleodotto, infatti, stando l’attuale andamento mercato del petrolio, potrebbe ridurre se non azzerare gli effettivi vantaggi economici del progetto.

Nel frattempo, a molti osservatori sembra chiaro che in gioco è in primis la sopravvivenza di una cultura nella rivendicazione dell’identità di una comunità. Forse spinta dal vento generale di cambiamento politico, nel giro di qualche settimana la protesta si è allargata fino a raccogliere il sostegno di personaggi noti, non nuovi a endorsment di questo tipo, come Leonardo di Caprio, Neil Young, Al Gore, fino a Bernie Sanders.

Una grossa mano per rendere #NoDPL così popolare è stata data da una campagna virale con una strategia particolarmente efficace, che ha consentito a milioni di persone di partecipare anche telematicamente alla protesta. Il check-in via Facebook non è poi così utile, come rilevato da molti in un flusso crescente di notizie e live dai cortei e dai posti di blocco – dovuto in realtà in buona parte proprio alla pubblicità via social – e ha posto, di nuovo, seri interrogativi sull’uso dei dati di navigazione nella sorveglianza della polizia. I numeri della partecipazione in massa ricordano intanto quali e quante questioni irrisolte dividono gli Stati Uniti, che non si limitano a un “Not In My Backyard”.

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.