ricerca

Inglese: la voce assordante della lingua franca della scienza

Si dà quasi per scontato che tutto il lavoro importante che viene pubblicato nella ricerca scientifica sia in inglese. Eppure non è così e la letteratura in altre lingue rischia di passare inosservata

Secondo gli scienziati dell’Università di Cambridge ogni studio pubblicato dovrebbe essere associata ad abstract in altre lingue oltre l’inglese. In questo modo la “barriera linguistica” inizierebbe a cadere. Crediti immagine: geralt, Pixabay

RICERCA – Quali sono le più grandi barriere che ostacolano la diffusione della ricerca e del progresso scientifico? Probabilmente ogni scienziato darebbe una risposta diversa, nonostante alcune costanti (pochi fondi, editoria predona, il meccanismo del “publish or perish“) ma se ce n’è una che non ci si aspetta è… la lingua. L’inglese.

Nonostante sia considerato un linguaggio comune, la vera lingua con la quale si esprime la ricerca scientifica, secondo un nuovo studio oltre un terzo dei nuovi lavori che vengono pubblicati sulle  riviste è in una lingua differente. Il risultato è che un numero importante di studi rischia di passare inosservato alla maggior parte della comunità scientifica, mentre tra chi parla e/o pubblica in inglese e chi invece non lo fa si crea una barriera. Le discipline che ne risentono di più? Probabilmente quelle in cui il progresso deriva dalla combinazione di scoperte all’avanguardia ed expertise locale, ad esempio la conservazione e le scienze ambientali in generale, che per tutelare specie animali, vegetali ed ecosistemi devono puntare sul coinvolgimento delle comunità locali sotto ogni punto di vista.

Avere una lingua comune, l’inglese, è di certo fondamentale, e ha permesso agli scienziati di tutto il mondo di instaurare un dialogo che in passato era inimmaginabile e consentito per le prime volte dal latino (proprio come la nomenclatura binomiale ha aiutato a superare la confusione derivata dai nomi comuni che ogni specie ha nelle varie lingue). Allo stesso tempo non si dovrebbe dare per scontato che tutte le informazioni più importanti siano vengano pubblicate in inglese. Non è così.

Secondo gli scienziati dell’Università di Cambridge coordinati da Tatsuya Amano, che hanno pubblicato i risultati dell’indagine su PLOS Biology, la soluzione deve partire dagli stessi giornali scientifici. Se a ogni studio pubblicato venissero associati abstract in altre lingue oltre l’inglese questa “barriera linguistica” inizierebbe a cadere. Anche le università e gli enti di ricerca dovrebbero fare lo stesso, inserendo il lavoro di traduzione in più lingue nella loro strategia di outreach, ovvero nel promuovere le loro attività e ricerche presso un pubblico sempre più variegato anche per provenienza (e lingua parlata).

Quando ai ricercatori che lavorano nelle aree protette spagnole è stato chiesto cosa ne pensassero riguardo al problema del linguaggio di pubblicazione, oltre la metà ha risposto che è un ostacolo che impedisce di accedere alle ultime novità in termini di gestione ambientale. Google Scholar, il motore di ricerca dedicato specificamente alla letteratura accademica, ha dato un responso analogo: nel solo 2014 gli studi legati alla conservazione della biodiversità sono stati pubblicati in 16 lingue diverse. Su 75.000 documenti tra libri, articoli e tesi di laurea o dottorato, il 12,6% era in spagnolo, il 10,3% in portoghese, il 6% in cinese semplificato (uno dei due modi di scrittura riconosciuti insieme a quello tradizionale) e infine il 3% in francese. Negli anni a seguire la situazione non è migliorata, anzi, la torre di Babele si è arricchita di pubblicazioni in italiano, tedesco, giapponese, coreano e svedese. Più o meno uno su due è dotato di un titolo o un abstract in inglese.

Cosa significa concretamente? Che un’enorme mole di letteratura scientifica è impossibile da raggiungere con una ricerca per keyword in inglese e le informazioni prodotte in paesi dove l’inglese non è la madre lingua cadono nell’oblio, o vengono notate molto tardi. Un po’ come accadde con l’influenza aviaria: i primi casi identificati in Cina tra il 2001 e il 2003 erano stati documentati su due riviste cinesi pubblicate in cinese, il Chinese Journal of Preventive Veterinary Medicine e il Chinese Journal of Veterinary Science, che richiamavano l’attenzione sul potenziale pandemico del virus se il ceppo H5N1 avesse dovuto combinarsi con l’umano H3N2. Né l’Organizzazione Mondiale della Sanità né le Nazioni Unite ne sapevano nulla, fino a quando gli autori hanno presentato il loro lavoro a un convegno dedicato specificamente alla prevenzione e controllo dell’influenza aviaria e della SARS (Sindrome Acuta Respiratoria Grave).

Il problema per di più non è affatto recente ed è un bias che si nasconde in piena vista. Un’indagine condotta nel 2012 su Scopus (un database Elsevier di riassunti e citazioni per gli articoli peer reviewed) sulle pubblicazioni tra 1996 e 2011 aveva concluso che inglese, cinese e russo erano le tre lingue “dominanti” in discipline quali fisica, ingegneria e scienze dei materiali, mentre scienze sociali, sanitarie, psicologia e ambito umanistico spaziavano in danese, italiano, francese e spagnolo. Al tempo erano circa otto su dieci i giornali indicizzati da Scopus a pubblicare in inglese, ma il trend sembrava mostrare che sempre più paesi pubblicavano in inglese e lo adottavano come “lingua della scienza”. Uno degli aspetti più interessanti è stato descritto nel 2006 dal linguista Joe Lo Bianco dell’Università di Melbourne, che ha parlato di domain collapse, ovvero del fatto che molte lingue non si sono adattate arricchendosi di nuovi termini per tenere il passo del progresso scientifico. Molte parole, ad esempio, sono semplicemente state traslitterate dall’inglese, che ha così rafforzato il suo ruolo di linguaggio comune per la scienza impedendo che ogni lingua si arricchisse di un vocabolario tecnico-scientifico suo. Con i conseguenti pro e contro.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Ovociti di topo da cellule epiteliali. La top 10 delle scoperte del 2016

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".