Cercate un analgesico naturale? Provate con le parolacce
"Queste ricerche sono state ispirate dalla nascita di mia figlia, quando mia moglie durante le dolorosissime contrazioni si è lasciata andare in un abbondante turpiloquio"
RICERCA – Un uomo è in piedi davanti a una bacinella di acqua ghiacciata. Improvvisamente, immerge la mano nel liquido e inizia a ripetere insistentemente una parolaccia molto volgare, sempre la stessa. La faccia è deformata da una smorfia di dolore, ma resiste. Alla fine l’uomo ritira l’arto, completamente arrossato, e smette di imprecare. Non è una scena di teatro situazionautico e nemmeno un carcere per sospetti terroristi. È il set sperimentale di uno dei lavori di Richard Stephens e il suo gruppo all’Università Keele, nel Regno Unito. Stephens studia le parolacce, in particolare la loro funzione comunicativa ed emotiva.
Il suo interesse nasce durante il parto della moglie: sconcertato dal linguaggio scurrile della sua compagna di vita, chiede all’ostetrica: ma è normale? La professionista, imperturbabile, lo tranquillizza: in questi momenti fan tutte così. Riportate a casa moglie e figlia lo psicologo inglese comincia a ragionare: associamo il linguaggio scurrile all’ignoranza e alla povertà espressiva, ma se fosse vero il contrario? E perché nei momenti più stressanti imprechiamo, può forse questo comportamento aiutarci nella gestione dello stress e del dolore?
Nella prima serie di esperimenti, quelli descritti sopra, che risale al 2009, Stephens e colleghi hanno infatti dimostrato che imprecare aiuta a sopportare meglio il dolore. I soggetti che erano istruiti a tenere la mano più a lungo possibile nell’acqua ghiacciata, dovevano contemporaneamente ripetere una parola. In una condizione si trattava di parolacce, nell’altra di termini neutri. Durante le sessioni veniva anche monitorato il battito cardiaco del soggetto.
I partecipanti che dicevano le parolacce resistevano in media più a lungo di quelli che pronunciavano parole neutre, e il loro battito cardiaco alla fine della prova era più accelerato degli altri. Secondo Stephens questo è un indizio che l’organismo aveva attivato una risposta “combatti-o-scappa” innalzando i livelli di arousal. Questo tipo di risposta fisiologica normalmente prevede il rilascio di segnali chimici endogeni in grado di ridurre il dolore, ecco perché gli imprecatori riuscivano a tenere la mano nell’acqua ghiacciata più a lungo. Una forma di analgesia naturale, insomma, senza controindicazioni e dagli effetti immediati.
La seconda serie di esperimenti di Stephens, pubblicata sul Journal of Psycholinguistic Research qualche giorno fa, chiude idealmente il cerchio: se nel primo caso è stato dimostrato che le parolacce influenzano lo stato emotivo, ora si mostra che lo stato emotivo può a sua volta influenzare la fluenza delle parolacce.
Suona un po’ come scoprire l’acqua calda, in effetti: è chiaro che se sono stressato o arrabbiato diventerò improvvisamente bravissimo a dire le parolacce. Ma la ricerca di Stephens ha un senso che va al di là dell’ovvietà. Qualche mese fa uno studio (non di Stephens) ha dimostrato che contrariamente al luogo comune, la fluenza nel turpiloquio è proporzionale alla fluenza generale di una persona. I test di fluenza sono quelli in cui si chiede a una persona di nominare, in un tempo limitato, tutte le parole che gli vengono in mente che iniziano con una lettera specifica. La prestazione è fortemente legata alle capacità linguistiche e cognitive della persona: più è fluente, più è bravo a parlare e in generale maggiore sarà il suo QI. Lo studio, pubblicato lo scorso dicembre, dimostra che chi è molto bravo a enumerare parolacce in un tempo definito (test di fluenza per le parolacce) è anche molto abile linguisticamente in generale. Insomma chi dice molte parolacce è in media più abile con il linguaggio di chi non le dice.
Questa osservazione (che ha in realtà molto senso) cozza con l’idea comune che le persone più brave a esprimersi a parolacce siano individui rozzi con uno scarso repertorio linguistico. Tornando al senso del secondo lavoro di Stephens, lo scienziato dimostra che la fluenza delle parolacce è influenzata anche dalle emozioni: in certi casi un boost emozionale ci aiuta a dare la stura e far “scorrere” meglio le imprecazioni che a loro volta avranno una funzione anti-stress, ma anche comunicativa.
Le parolacce sono uno strumento linguistico estremamente potente, spiega Stephens, per nulla rozzo, e sono importanti i certi momenti della vita, anche quelli più tragici. Come scrive lui stesso in un articolo apparso su The Conversation, nella maggior parte registrazioni delle scatole nere di aerei precipitati, le ultime parole dei piloti son imprecazioni. La vita, la morte e le parolacce.
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