SALUTE

Cure palliative: la legge c’è da anni, ma le regioni sono in ritardo

Disomogeneità di servizi e di distribuzione delle risorse. Scarsa formazione specialistica e nessun accesso ai servizi per malati non oncologici.

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Uno dei problemi delle cure palliative in Italia e la disomogeneità: in alcune aree gli hospice sono pochi e mal distribuiti. Immagine dal sito di Federazione Italiana Cure Palliative

SALUTE – Quello che emerge parlando con chi si occupa di valutare lo stato dell’arte delle cure palliative in Italia è lo scollamento fra quanto è previsto sulla carta e quanto invece accade nella realtà. Se grazie alla Legge Quadro 38 del 2010 possiamo dire di avere uno dei sistemi di cure palliative migliori in Europa – un dato che è emerso anche durante il recentissimo Congresso Europeo di Oncologia che si è tenuto ad Amsterdam – è altrettanto vero che a distanza di 6 anni ancora non tutte le regioni si sono dotate di normative idonee per attuare i requisiti previsti dalla legge.
In questi mesi il Ministero ha messo in piedi una commissione per attuare una ricognizione sullo stato delle cure palliative a livello regionale, e attendiamo la pubblicazione dei risultati nei prossimi mesi.

Nell’attesa dei nuovi dati, un primo aspetto lo racconta a OggiScienza Luca Moroni, Presidente della Federazione Italiana di Cure Palliative: in alcune aree d’Italia gli hospice sono pochi e mal distribuiti, un fenomeno ben visibile se si osserva la mortalità ospedaliera in alcune zone, sottolineata da una delle ultime relazioni al Parlamento. Dove non ci sono strutture ovviamente si muore molto di più in ospedale. Già nel 2007 il Decreto Ministeriale 43 aveva posto l’obiettivo di garantire l’accesso alle cure palliative ad almeno il 65% dei malati oncologici. A 10 anni di distanza siamo intorno al 30%.

Non dobbiamo parlare però solo dei malati oncologici. “Come ha chiarito nel 2014 anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 60% dei malati bisognosi di cure palliative non sono oncologici – prosegue Moroni – il che ci dà ancora di più il peso del dato esposto sopra: non solo oggi ha accesso ai servizi in media il 30% dei malati oncologici che ne avrebbero diritto, ma restano fuori anche tutti quei pazienti che soffrono di altre patologie come quelle respiratorie, cardiache, malattie rare e via dicendo, che sono la maggior parte del totale del malati.”

La disomogeneità che sta alla base delle differenze di risultati è quella della distribuzione delle risorse. Ogni regione stabilisce le quote da assegnare per ogni singola struttura e le tariffe da applicare, con il risultato che in una regione una giornata di assistenza in hospice può essere remunerata 200 euro, in un’altra 300 euro. “Dobbiamo ripartire da qui per stabilire un’equità delle cure” spiega Italo Penco, Presidente della Società Italiana Cure Palliative. “Qualche anno fa è stato aperto un tavolo di lavoro proprio con l’idea di rendere le tariffe più omogenee, ma al momento i lavori sembrano essere fermi. Un motivo di questa lentezza è probabilmente la necessità di ridefinire prima i percorsi assistenziali del malato, che devono essere il più simili possibile in ogni regione, e una volta disegnati questi percorsi ci auguriamo che il tavolo riprenderà i suoi lavori”.

La Conferenza Stato-Regioni del luglio 2012 ha infatti prodotto un importante documento per le cure palliative contenente i 14 requisiti di accreditamento delle reti, che prevede, per esempio, il supporto psicologico che ogni struttura dovrebbe garantire al malato e alla sua famiglia. “Anche analizzando questo documento emergono le disomogeneità”, prosegue Penco. “Per esempio, non in tutti i servizi di cure palliative domiciliare si offre l’assistenza psicologica o l’assistenza al lutto. La parola d’ordine della Legge 38 è ‘fare rete’ fornendo il giusto servizio al malato nelle varie fasi della malattia con continuità di cura, ma sono aspettative ancora profondamente disattese. L’aspetto positivo è che le autorità sanitarie hanno capito che le cure palliative dovrebbero essere somministrate per necessità del paziente e non solo in base a diagnosi e prognosi di sopravvivenza. Su questo concetto i nuovi LEA [livelli essenziali di assistenza, NdR] hanno chiarito bene questo aspetto, definendo i criteri di complessità per una presa in carico appropriata. Finora purtroppo dobbiamo constatare che le cure palliative sono attivate in ritardo con il risultato che i malati sono spesso soli e ricevono scarso supporto sulle scelte decisionali, specie sul fine vita.”

È cruciale inoltre il problema della formazione del personale sanitario. Al momento infatti non esistono crediti formativi all’interno dei corsi di laurea in Medicina che riguardino esplicitamente le cure palliative. Esistono master e corsi di perfezionamento, ma ancora le cure palliative non sono inserite a pieno titolo nel percorso formativo del medico di base, nonostante questo punto sia esplicitato nella stessa Legge 38 del 2010. Oggi la maggior parte dei medici e degli operatori sanitari che lavorano in ambito palliativo non ha una formazione specifica. “Un fatto assurdo se pensiamo che con l’invecchiamento della popolazione ci ritroveremo nei prossimi decenni con sempre più persone che avranno bisogno di cure palliative e di supporto psicologico non solo medico”, prosegue Penco. “Per non parlare delle scarse competenze, dovute anche a ragioni di tempo, dei medici di medicina generale che sono il primo contatto del malato con il sistema sanitario: il problema della comunicazione delle cure palliative al grande pubblico è ancora un grande tabù che va superato”.

Arriviamo dunque alla vexata quaestio: i costi. Rafforzare le cure palliative determinerà senza dubbio un risparmio per i sistemi sanitari – spiega Moroni – dal momento che senza di essi i malati finirebbero per intasare pronto soccorso e ospedali. Al centro di questo potenziamento però ci deve essere una cambio di paradigma nella concezione che oggi abbiamo di cure palliative, spostando il baricentro dal fine vita a una presa in carico precoce del malato, non solo di quelli in fase terminale.

@CristinaDaRold

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.