Come la cultura influenza la percezione visiva
Anche un processo apparentemente automatico come la capacità di riconoscere una figura può essere influenzato dalla cultura in cui siamo cresciuti. Una ricerca ha esplorato le differenze percettive tra asiatici e occidentali.
SCOPERTE – La capacità di riconoscere piccole differenze tra immagini simili potrebbe essere legata al nostro background culturale. In altre parole, vediamo solo ciò che siamo abituati a vedere. Lo afferma uno studio pubblicato di recente sulla rivista Cognitive Science, condotto da un gruppo di ricerca guidato dall’università di Kyoto.
Vari studi si sono focalizzati sul rapporto tra cultura e processi cognitivi e hanno evidenziato caratteristiche diverse tra “occidentali” (europei e nordamericani) e “orientali” (giapponesi e cinesi). Gli occidentali utilizzano un approccio analitico, in cui gli elementi sono esaminati indipendentemente dal contesto e in cui regole generali sono utilizzate per spiegare e predire i comportamenti. Nella cultura orientale, invece, l’approccio che prevale è quello olistico, in cui il campo percettivo è analizzato nel suo insieme e gli eventi sono spiegati in base alle relazioni tra gli oggetti.
Fino a oggi la maggior parte dei lavori sul rapporto tra percezione visiva e influenze culturali aveva dato per scontato che potesse essere applicato un modello unico. Ma secondo Yoshiyuki Ueda, primo autore dello studio pubblicato su Cognitive Science, si tratta di una spiegazione semplicistica. I ricercatori ritengono infatti che gli studi precedenti abbiano utilizzato elementi complessi per condurre le analisi, e in questo modo abbiano introdotto molto “rumore” nei risultati.
Poiché un bias culturale potrebbe anche essere legato all’uso di una lingua diversa, Ueda e colleghi hanno scelto di utilizzare semplici figure geometriche. All’esperimento hanno partecipato volontari provenienti da Canada, Stati Uniti e Giappone. I ricercatori hanno mostrato loro gruppi di oggetti, come linee dritte che avevano tra loro piccole differenze. Lo scopo era riconoscere queste minime variazioni, come una diversa inclinazione dell’angolo e una maggiore o minore lunghezza.
Quello che è emerso dall’esperimento è che i partecipanti di origine americana presentavano “asimmetrie” nel riconoscimento di una linea più lunga o più corta delle altre. In particolare, i volontari impiegavano più tempo a riconoscere una linea più corta (in un gruppo di linee della stessa lunghezza) rispetto a una linea più lunga. Nel caso dei volontari giapponesi, invece, non è stata evidenziata nessuna differenza in questa capacità. I partecipanti orientali, tuttavia, avevano difficoltà nel riconoscere una linea dritta tra molte linee inclinate.
Secondo i ricercatori, la teoria analitica-olistica non spiega queste diversità: è probabile che siano coinvolti altri meccanismi percettivi, che intervengono nelle prime fasi del processo di codifica dello stimolo. Una delle ipotesi è che alla base ci sia il diverso sistema ortografico che siamo abituati a vedere. Nell’ortografia orientale, molti caratteri si distinguono in base a piccole differenze nella lunghezza del tratto, nei punti di intersezione e in base alla presenza o meno di un elemento. Negli alfabeti occidentali, al contrario, piccole variazioni angolari nella stessa lettera determinano grandi variazioni nel modo in cui viene pronunciata (si pensi, per esempio, alla coppia di lettere u-v e alla coppia H-N). I prossimi studi potrebbero indagare non solo la natura delle differenze culturali nella percezione visiva ma anche, più in generale, i meccanismi percettivi che intervengono nel processo.
Leggi anche: Se Clark Kent mette gli occhiali è irriconoscibile. O forse no
Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.