Prendere decisioni: un lavoro di squadra nel cervello
Il valore atteso si ottiene moltiplicando il valore che attribuiamo a qualcosa per la probabilità di ottenerla. Si è pensato a lungo coinvolgesse una sola parte del cervello, ma uno studio sui macachi racconta una storia differente
SCOPERTE – Il valore atteso, secondo la definizione introdotta dal matematico Blaise Pascal, si ottiene moltiplicando il valore di qualcosa (quanto la vogliamo o quanto ne abbiamo bisogno) per la probabilità di ottenerla. Per esempio il valore di un nuovo e stimolante impiego per la probabilità di superare con successo l’iter di selezione, in base a quanto siamo competenti e adatti al ruolo. Oppure una vittoria sportiva, per la probabilità di superare tutti gli avversari in base a quanto ci siamo allenati e impegnati in vista della gara.
Valore attribuito per probabilità: è così che ponderiamo le nostre decisioni nella vita di tutti i giorni, in modo consapevole o meno. Una nuova ricerca ha studiato lo stesso meccanismo anche nei macachi, per scoprire quali parti del loro cervello si mettono in moto quando devono stabilire il valore atteso. Perché sì, ovviamente non è un “calcolo” solo umano. Ogni specie si trova continuamente a dover scegliere come comportarsi, dove andare a nutrirsi, dove fare il nido, come gestire le scorte per l’inverno, come sfuggire ai predatori e via dicendo.
Come spiega Peter Rudebeck, professore di neuroscienze e psichiatria alla Icahn School of Medicine at Mount Sinai, a capo del nuovo studio pubblicato su Neuron, si è pensato a lungo che entrambe le variabili (valore e probabilità) fossero processate nella stessa regione del cervello, che arrivava poi a “sfornare” il valore atteso. Ora sembra chiaro che non è così e che il calcolo ha luogo in due zone separate, non solo anatomicamente ma anche nei processi cognitivi: la corteccia orbitofrontale (OFC) e quella ventrolaterale prefrontale (VLPFC). È il frutto di un lavoro di squadra all’interno del cervello.
In un primo esperimento i macachi hanno giocato a una sorta di slot machine, con un touch screen che mostrava delle immagini, e dovevano capire a quale delle immagini era più probabile seguisse una ricompensa (snack al sapore di banana). Via via che le scimmie giocavano, i ricercatori modificavano le probabilità, ma gli animali non si facevano “ingannare” e cambiavano la scelta di conseguenza.
Di fronte allo stesso compito, un secondo gruppo di scimmie che aveva subito danni alla OFC otteneva gli stessi risultati. Ma la sorpresa è arrivata con il terzo gruppo, formato da scimmie con danni alla VLPFC: avevano perso la capacità di valutare le probabilità e tenerne conto.
In un secondo esperimento, le scimmie hanno ricevuto come spuntino dei confetti di cioccolato M&M’s e, in seguito, dovevano giocare a un gioco che avrebbe fruttato loro una seconda ricompensa: di nuovo M&M’s oppure una nocciolina. Entrambe le ricompense erano nascoste sotto oggetti precisi e le scimmie avevano imparato in precedenza che sotto un oggetto avrebbero trovato una nocciolina e sotto un altro il confetto di cioccolato; i ricercatori si aspettavano che avrebbero preferito le noccioline, per variare da quanto avevano già mangiato.
Cosa è successo? Le scimmie sane e quelle con lesioni a VLPFC sceglievano la nocciolina, mentre quelle con lesioni alla OFC l’M&M’s.
Le scimmie con le lesioni nelle due regioni cerebrali, dunque, sono perfettamente in grado di prendere decisioni basandosi sulla probabilità che qualcosa si verifichi oppure sul valore che vi attribuiscono, ma trattandosi di aree interconnesse perdono l’abilità di combinare i due elementi. I ricercatori, quindi, hanno fatto centro. Come spiega Rudebeck, sono partiti da una conoscenza precisa, ovvero il fatto che le persone che subiscono dei danni alla corteccia orbitofrontale vedono compromessa l’abilità di prendere decisioni.
Andando più a fondo nell’analisi, dicono gli autori, è apparso evidente anche che le differenze dipendono da quanto il cervello è stato danneggiato. “Quando i chirurghi rimuovono un tumore dalla corteccia orbitofrontale non tolgono solamente materia grigia, la corteccia del cervello, ma capita che coinvolgano inavvertitamente la materia bianca, che comprende le connessioni tra diverse parti del cervello”, conferma Rudebeck in un comunicato. “Sapevamo che la corteccia ventrolaterale prefrontale è proprio accanto a quella orbitofrontale, così abbiamo deciso di darci un’occhiata”.
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