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Miniere nel deserto: quando l’acqua è più preziosa dell’oro

Buona parte delle aree desertiche in tutto il mondo nascondono giacimenti di risorse preziosissime e vitali per diversi settori.

Le miniere di cloruro di potassio di Cane Creek con le caratteristiche vasche di evaporazione azzurrine. Crediti immagine: Doc Searls, Wikimedia Commons

SPECIALE SETTEMBRE – A guardarli in superficie, i deserti non lasciano molto spazio all’immaginazione: le sterminate distese, inospitali e aride, di roccia e sabbia, nell’immaginario comune sono al massimo intervallate da oasi o pozzi petroliferi. Non è però solo il petrolio a rendere eccezionali e appetibili questi ambienti. Secondo l’USGS, di 15 maggiori depositi di risorse minerarie presenti nel solo emisfero occidentale, 13 si trovano in zone desertiche. Nelle terre più aride infatti, la veloce evaporazione in bacini lacustri e l’accumulo di acque sotterranee, facilitano la precipitazione di minerali come il gesso, sali come il nitrato e il cloruro di sodio, mentre i lenti processi geologici fanno il resto.

Così, buona parte delle aree desertiche in tutto il mondo, anche le più insospettabili, nascondono giacimenti di risorse preziosissime e vitali per diversi settori, come l’energia, la chimica, l’elettronica. Nel deserto di Atacama, per esempio, l’immensa fossa di Chuquicamata è la miniera a cielo aperto da cui esce un decimo di tutto il rame prodotto a livello mondiale; tra i canyon scavati dal fiume Colorado nello Utah, spiccano le miniere di cloruro di potassio di Cane Creek, distinguibili anche a chilometri di distanza per la colorazione azzurrina della silvite delle vasche di evaporazione.

Il deserto non è quindi solo una minaccia – soprattutto quando si estende per colpa dei cambiamenti climatici, ma rappresenta anche una fonte di ricchezza. Già più di 3000 anni fa, del resto, gli Egizi sapevano dove cercare l’oro nel Deserto Orientale.
Minare nel deserto è tuttavia una sfida tecnologica da non sottovalutare, e da risorsa, può diventare anche motivo di problemi per l’ambiente desertico oltre che, inevitabilmente, di conflitti. La stessa minera di Chuquicamata è conosciuta anche come la “tumba del chileno”, per essere stata la tomba di migliaia di operai costretti a lavorare senza l’ausilio di strumenti e protezioni adatte, in un’ambiente per sua natura pericoloso per la salute umana. Ancora oggi, nuove ostilità continuano a rendere difficile la conquista del deserto e delle sue miniere.

Da “Minegolia” alla Nuova Zelanda, la faticosa colonizzazione delle oasi minerarie

Il deserto del Gobi, situato a sud della Mongolia, è stato fino a pochi anni fa uno degli ultimi deserti ancora in parte inesplorati. Oggi invece, il Gobi è al centro di una svolta epocale della Mongolia, il paese più povero e meno popolato dell’Asia centrale che sta vivendo un’eccezionale stagione di crescita economica, da quando agli inizi degli anni 2000 il governo ha virato verso una politica di apertura al mercato delle risorse minerarie, di cui il deserto mongolo abbonda, come rame, oro, carbone, uranio. Questo boom, che gli analisti hanno battezzato Minegolia, ha iniziato a dare i suoi frutti attorno al 2011, quando la crescita del paese è arrivata a a toccare vette di più del 15% rispetto al passato, grazie per esempio ai giacimenti di rame di Oyu Tolgoi, al deposito di argento di Asgat o di uranio di Dornod. È in particolare alle miniere di carbone di Tavan Tolgoi che sono affidate le speranze di raggiungere i livelli dell’industria estrattiva del Cile o del Brasile.

Le condizioni estreme di questi ambienti richiedono però sforzi, e la tecnologia nel frattempo si è adeguata: l’esplorazione delle aree più remote del deserto del Gobi può contare ora su efficienti sistemi automatizzati che combinano tecnologie GIS (Geographical Information System) con programmi di imaging e visualizzazione 3D; si fa uso anche di UAV (Unmanned Aerial Veichols) speciali droni progettati appositamente, e nuove reti di comunicazione per connettere e smistare la grande quantità di dati prodotti coprendo superfici così vaste.

Questi progressi tuttavia non bastano a domare i limiti naturali del deserto. Bisogna per esempio fare i conti con la scarsità d’acqua, dal momento che le miniere hanno bisogno di una quantità d’acqua quotidiana superiore di almeno cinque volte a quella necessaria al sostentamento della popolazione (circa 190mila metri cubi d’acqua contro i 40mila dell’uso domestico), stando ai dati del report della Banca Mondiale sulla Mongolia meridionale. Le già risicate risorse idriche dei bacini nel sottosuolo del deserto, inoltre, rischiano di esaurirsi completamente nel giro di pochi anni, visto che il tasso di consumo non si riduce ancora a sufficienza. Alla scarsità bisogna aggiungere il problema dell’inquinamento delle acque causata dall’industria estrattiva. Nelle acque provenienti dai bacini del Gobi, infatti, sono state trovate tracce di metalli pesanti, arsenico e uranio – la contaminazione da uranio è una minaccia che persiste in Mongolia fin dai primi anni della guerra fredda, ma le malformazioni congenite sono sono aumentate particolarmente negli ultimi anni del boom Minegolia. 

Le autorità devono poi gestire i conflitti di natura più strettamente politico-sociale, causate da una disparità nella distribuzione della ricchezza, che mortifica gli stessi lavoratori delle miniere: nel gennaio 2014 è stato arrestato e condannato l’attivista Tsetsegee Munkhbayar, solo uno dei casi di scontri frutto delle proteste contro l’espansione insostenibile delle miniere di carbone. La miniera di Tava Tolgoi non è insomma ancora riuscita a concretizzare del tutto la speranza di rinascita del deserto, e in generale questa non è l’unica industria sufficiente come volano della Mongolia.

Non solo in Asia il deserto mostra questo suo duplice aspetto. La città di Copiaco in Chile, una delle roccaforti delle miniere del deserto di Atacama, continua a soffrire di una grave crisi idrica – come del resto tutta la regione interessata dall’estrazione del rame – che ha portato il governo a spingere sull’uso delle tecnologie di desalinizzazione. Come descritto da un rapporto del MIT dedicato ai rischi delle miniere nel deserto, anche la Nuova Zelanda ha subito i danni della perdita di rifiuti tossici dalle miniere di terre rare nel deserto di Mountain Pass.
Sempre secondo gli esperti del MIT, le tecnologie per operare con processi di estrazione verde, sono già potenzialmente disponibili, come le tecniche di soppressione della polvere, la liscivizione dell’acido solforico, le tecniche di separazione dei metalli a membrana liquida o lo stoccaggio impermeabile di rifiuti. Ma anche innovando le miniere, anche queste tecnologie hanno sempre bisogno dell’unica risorsa che ostacola la completa conquista dei deserti: l’acqua.

Leggi anche: La conquista dell’outback australiano a opera di John Stuart McDouall

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.