Tundra e petrolio, un rapporto complicato
Cresce l'interesse per le estrazioni di petrolio e gas naturali nelle regioni artiche, con conseguenze potenzialmente pericolose per l'ambiente della tundra e la sua biodiversità.
SPECIALE NOVEMBRE – Le zone dell’estremo nord del pianeta ricoperte di tundra sono terre di confine che per secoli hanno rappresentato obiettivi di conquista e ispirazione per scenari leggendari: centinaia di anni fa, i popoli europei individuarono nelle gelide acque dell’Artico un possibile punto di accesso al Pacifico, e le aree che lambiscono il Polo sono state la casa di antiche popolazioni come gli Inuit e i Chukci, che in parte ancora le abitano.
Il fascino della tundra artica rimane inalterato anche oggi, grazie alla bellezza selvaggia di milioni di ettari di terra incontaminata e alla biodiversità unica di queste regioni.
E a sopravvivere alla prova del tempo è anche la tundra intesa come risorsa naturale, una terra ancora da esplorare e tra le prime mire di una moderna colonizzazione. Lo Yukon, regione all’estremo nord del Canada, per esempio, è una fonte ricchissima di metalli preziosi come l’oro e l’argento e rappresenta inoltre un’area di interesse per paleontologici e archeologi – qui sono tornati alla luce interi scheletri di animali preistorici come mammut lanosi, bisonti, cavalli selvatici, durante le operazioni di dilavazione di polvere e terra proprio dai filoni auriferi. Il tesoro più appetibile della contesa sui territori della tundra è tuttavia quello energetico: le zone che si affacciano sull’Artico sono ricche di petrolio e gas naturale, riserve che possono mettere al sicuro il sostentamento di diversi Paesi, ma che costituiscono un rischio serio per la tundra e le popolazioni che vivono in questi ambienti.
Una riserva di energia piena di insidie
Secondo l’USGS, l’Artico conserva almeno il 13% delle riserve petrolifere ancora inesplorate a livello globale (pari a circa 90 miliardi di barili), e ancora di più per il gas naturale che tocca una quota di quasi il 30% delle riserve naturali mondiali.
Si tratta di stime soggette a continuo aggiornamento, che secondo altre analisi potrebbero anche raggiungere il 25% delle attuali risorse inesplorate di combustibili fossili. Questi numeri non sono in realtà così sorprendenti per i geologi, ben consapevoli delle dinamiche del sottosuolo che rendono le terre ghiacciate dell’Artico un’area abbondante di petrolio e gas. Gli stessi movimenti della tettonica delle placche che portano alla formazione di ambienti anossici – cioè a bassa concentrazione di ossigeno – che garantiscono la formazione e il consolidamento dei legami carbonio-idrogeno tipici degli idrocarburi, sono anche responsabili del percorso geologico seguito dalle aree che comprendevano paludi, delta dei fiumi, placche oceaniche e in generale ambienti a bassa circolazione di acque oceaniche. È quello che sta accadendo a bacini relativamente più giovani, geologicamente parlando, come il Golfo del Messico e il Golfo della California, ed è il fenomeno per cui i depositi fossili si concentrano nelle zone desertiche, dove si possono anche rintracciare cicatrici lasciate in antichità dai ghiacciai, e in prossimità dei poli, appunto, dove abbondano riserve all’apparenza inspiegabili di carbone, gas e petrolio, a conferma che quelle placche erano un tempo allocate altrove sulla superficie della Terra.
La nuova frontiera degli idrocarburi è tra le mire degli Stati Uniti, del Canada, della Danimarca, della Norvegia e, soprattutto, della Russia, che di recente con l’ambiguo Progetto Iceberg ha messo a punto un sottomarino a fissione nucleare per esplorare le gelide acque del Mare Glaciale Artico per monitorare i fondali marini e organizzare un sistema di comunicazione in previsione di prossime campagne di scavo. La Russia estrae già dall’Artico più di 5 milioni di tonnellate di petrolio l’anno, e un’accelerazione così aggressiva nella competizione per lo sfruttamento di nuovi giacimenti tramite l’uso di tecnologie robotizzate è da interpretare in parte come una risposta diplomatica alle sanzioni internazionali seguite all’annessione alla Crimea, e non sembrano poi tanto convincenti i proclami russi di portare a termine il progetto entro il 2020. Estrarre petrolio dall’Artico e dalle aree a tundra in generale non è infatti per niente semplice.
Non è un caso del resto che questi giacimenti siano rimasti così a lungo inesplorati e in buona parte ancora integri. Sono innanzitutto i costi proibitivi che allontanano la prospettiva di uno sviluppo redditizio dell’industria petrolifera nella regione: la tecnologia utile per gli scavi deve essere progettata in previsione di temperature molto basse, così come è necessario prevedere vie e mezzi di trasporto adeguato (la ragione per cui la Russia ha messo a punto una piccola flotta di sommergibili guidati a distanza), con spese elevate in proporzione a queste complessità, a cui si aggiungono gli introiti più alti attesi dai dipendenti delle compagnie petrolifere che lavorano in condizioni così estreme. Bisogna poi mettere in conto anche i costi prevedibili per compensare eventuali perdite di gas, che possono danneggiare gli impianti, e di petrolio in mare aperto, con conseguenze ambientali e sociali incalcolabili.
Rischi elevati, la tecnologia (ancora) non basta
Nonostante un’apparente capacità di resistenza, tutte le specie di piante e animali che vivono nella tundra sono in una continua condizione di vita precaria, e anche piccole violazioni ambientali possono sconvolgere il loro delicato equilibrio. Gli interessi di carattere economico che stanno subentrano nella tundra a un ritmo sempre più veloce potrebbero modificare radicalmente questo bioma. L’asportazione del manto erboso per l’estrazione di minerali può provocare disgelo ed erosione, e ancora oggi sono visibili le tracce del passaggio dei veicoli di decine di anni fa non ancora rimarginate. Anche l’inquinamento atmosferico ha già raggiunto nell’estremo nord livelli paragonabili alle aree suburbane degli Stati Uniti – buona parte di banchi di foschia anomali sono imputabili alle aree industriali europee e dei centri produttivi di quella che fu l’Unione Sovietica. Infine, gli effetti del cambiamento climatico indotti dalle attività umane provocano uno scioglimento del permafrost, complicando ulteriormente il quadro ambientale dell’Artico.
Proprio in questi giorni, una disputa su un allargamento delle licenze di trivellazione nell’Artic National Wildlife Refuge in un’area compresa tra l’Alaska e lo Yukon, riportata da Science, è arrivata al congresso degli Stati Uniti perché in ballo c’è la salvezza di migliaia di esemplari di caribù e la sopravvivenza di comunità di nativi dell’Alaska su un territorio di più di 15 000 ettari. Nonostante le promesse delle compagnie coinvolte di abbassare l’impatto della carbon footprint, gli ambientalisti sono sul piede di guerra, ben consapevoli che il rischio di danno all’equilibrio ecologico della tundra si può concretizzare come già avvenuto in passato: a un anno di distanza dal disastro del Golfo del Messico, una perdita da un oleodotto di una compagnia inglese riversò nella tundra d’Alaska 15 000 litri di petrolio, e ancora prima, nel 2006, una perdita ingente a Prudhoe Bay superò il record catastrofico raggiunto nel 1989 dal disastro della Exxon Valdez . Più di recente, lo scorso gennaio sono state la Tundra canadese e le comunità di nativi che la abitano a soffrire le conseguenze di una perdita di 200 000 litri di petrolio da un oleodotto che collega l’Alberta all’oceano Pacifico.
In seguito a questi e altri eventi, sono stati perfezionati diversi sistemi di intervento e di bonifica momentanea in caso di emergenze per perdita di petrolio tra i ghiacci e in mare aperto, come lo skimming, la combustione in-situ e l’utilizzo di disperdenti chimici da alta quota. L’allerta rimane comunque alta e la priorità è incrementare le potenzialità tecnologiche per tracciare e isolare le perdite di petrolio.
Nel 2014, un rapporto rilasciato dal Nationa Research Council e dalla National Academy of Sciences segnava in cima alla lista delle difficoltà nel contenere i flussi di greggio proprio l’interazione con i ghiacci dell’Artico, un labirinto naturale per cui sono necessari strumenti ben più avanzati dei semplici interventi da guardia costiera, ricorrendo per esempio a monitoraggi a distanza, sia in quota che in acqua.
Sempre secondo il rapporto dell’NRC, i Paesi interessati a incrementare le trivellazioni nell’Artico, sia in mare aperto sia sul territorio a tundra, sono ben lontani dal mettere in atto pratiche sicure. In particolare, bisogna compensare alcune lacune di conoscenze tecnico-scientifiche prima di avventurarsi in nuove campagne di estrazione. Per esempio, è necessario eseguire dei test di trivellazione per le regioni a clima più rigido, possibilmente in situ considerando che finora studi più specifici sono stati condotti con simulazioni. Inoltre bisogna implementare la conoscenza generale sull’Artico, dal momento che meno del 10% delle coste può contare su dati topografici adeguati e le carte nautiche sono obsolete e ferme agli aggiornamenti degli anni Cinquanta. È poi opportuno preparare un piano adeguato di tutela per la biodiversità della regione, sia animale sia vegetale. Al momento di tale biodiversità “sussiste una generale mancanza di studi scientifici mirati e protocolli condivisi”, che si riflette direttamente sulla sussistenza di popolazioni come gli Inupiat del Nord Alaska. In merito alle conseguenze sulle comunità locali, va ricordato che per esempio proprio il dibattito sul National Wildlife Refuge, raccontato da Science, ha dei precedenti di attivismo ambientale con tanto di proteste e occupazioni andate avanti per diversi mesi.
La tundra, in definitiva, è una regione forte e delicata, dove la ricerca di nuove risorse e le nuove tecnologie per gestirle – due settori che in altri contesti possono essere valutati separatamente – collidono in modo drammatico. Gli effetti del cambiamento climatico in atto non fanno che peggiorare la situazione, indebolendo le difese naturali di per sè fragili, con lo scioglimento dei ghiacci e del permafrost, e favorendo quindi l’estrazione in un paradossale cortocircuito ambientale.
Se si sacrificassero ancora le buone condizioni di salute della tundra, che circondando il polo agisce come un barometro dello stato fisico della Terra, a favore di un’accelerazione dell’estrazione di petrolio, gas e minerali, guadagneremmo in riserve energetiche, ma perderemmo altre preziose risorse naturali utili a far rinascere la vita in caso di possibili disastri ecologici più a sud.
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