CULTURA

Alle frontiere della 180. Storie di migranti e sanità pubblica

Cosa può imparare la psichiatria dalla clinica dei pazienti migranti? Come può essere ripensata la sua funzione all’interno delle nostre società in continua evoluzione?

LIBRI – Ormai gli esperti lo ripetono da più parti, sebbene il messaggio fatichi a penetrare molta opinione pubblica: la sfida più grande per la salute pubblica nella presa in carico dei migranti che arrivano nel nostro paese è la salute mentale. Per loro, non per noi. I dati parlano chiaro: non sono le malattie infettive a invadere il migrante che arriva sulle nostre coste, ma depressione, disturbi di adattamento, disordini post-traumatici da stress, stati d’ansia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, per esempio, ha dedicato la giornata mondiale della salute 2017 proprio alla salute mentale, anche in relazione al fenomeno delle migrazioni. Inoltre, nell’aprile di quest’anno sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale le Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.

Il presupposto da cui parte questo interessante libro dello psichiatra Davide Bruno (Alle frontiere della 180, Il Pensiero Scientifico) è che le sollecitazioni che provengono dalla presa in carico dei pazienti migranti riportano a quelle che hanno portato alle nota Legge 180, la Legge Basaglia, promulgata 40 anni fa. Possiamo trovare nella presa in carico dei pazienti migranti – si chiede l’autore – degli stimoli nuovi per ripensare in modo più esteso all’assistenza psichiatrica in Italia?
Il punto di partenza da cui parte Bruno è quella dell’“umanista europeo”, per citare la felice espressione usata da Marie Rose Moro nell’introduzione al libro. “Sono i pazienti a renderci terapeuti, attraverso i propri racconti” scrive Bruno. Lo scheletro del libro sono infatti le storie, vere, di incontri avvenuti fra l’autore e alcuni pazienti immigrati (stranieri ma anche italiani). Ed è così che una storia dopo l’altra il lettore è condotto per mano nella comprensione dell’importanza di partire dalla narrazione del paziente, dalla sua cultura.

Esemplificativa in questo senso è la storia di Leila e dei suoi “spiriti che arrivano da lontano”: l’unica alleanza terapeutica che si è rivelata fruttuosa è passata attraverso lo studio diremmo “etnografico” dell’universo di Leila. È così che scopriamo che i veri responsabili del disagio della giovane donna sono i Djiin, spiriti che permeano molta della cultura magrebina e noti anche nel Corano. Non si tratta di contraddire la razionalità occidentale, ma di applicarla ai simboli di un universo antropologico altro dal nostro e in molti casi più radicato nella cultura di chi arriva. “Un passaggio fondamentale – scrive l’autore tirando le somme dell’esperienza – è stato quello di non svalutare le informazioni che la paziente ha fornito circa l’origine del suo malessere, passando da una logica di esclusione, a una dinamica inclusiva in cui le diverse ipotesi interpretative e terapeutiche possono coesistere”.
È la medesima conclusione che si ritrova alla fine della storia di Domenico, un italiano meridionale emigrato a Genova, i cui “fantasmi” si sono potuti allontanare solamente una volta comprese le “superstizioni” vissute dal paziente e derivanti dalla cultura in cui è stato cresciuto e dalle convinzioni della madre (“Se mi seppellirete accanto alla famiglia di vostro padre non vi darò pace”).

Cruciale in tutto questo è il ruolo della mediazione culturale, compreso l’interpretariato, che nelle strutture pubbliche italiane latita, come viene sottolineato più volte nel corso del testo. E soprattutto, è fondamentale pensare alla psichiatria anzitutto come etnopsichiatria, che difenda – appunto – una visione inclusiva della società, costruendo dispositivi specifici di presa in carico, che non cerchino di appiattire le peculiarità di ognuno in nome di categorie sempre più nette e più rapide da usare come etichette. È ancora il momento di mettere in campo una pratica “sovversiva”, come fu sovversiva la Legge Basaglia. Non a caso il libro si apre con una domanda che parafrasata risulta: un sogno sognato da altri può essere sognato altre volte, da altre persone, in altri tempi e altri luoghi?

@CristinaDaRold

Leggi anche: 13 maggio 1978, legge Basaglia

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.