Mega terremoti dalle Alpi all’Himalaya: un modello per localizzarli
Simulare la collisione tra due continenti per capire quali sono le zone più a rischio di mega terremoti con magnitudo superiore a 7. Ecco l'innovativo modello sviluppato da Luca Dal Zilio della ETH Zurich per Alpi, Appennini, Zagros e Himalaya
APPROFONDIMENTO – Come nascono i mega terremoti e quali sono i parametri che possono aiutare a capire dove colpiranno? Prevedere i terremoti ad oggi non è ancora possibile, ma quel che possiamo fare è determinare la distribuzione di probabilità che un evento si verifichi in una zona ad alta sismicità. Si tratta di mappe del rischio che solitamente si basano su dati “storici”, cioè i dati statistici relativi agli eventi sismici avvenuti in quella zona raccolti in cataloghi più o meno esaurienti.
Mappe del rischio che, con il nuovo studio condotto da Luca Dal Zilio, dottorando del dipartimento di Geophysical Fluid Dynamics della ETH Zürich, sono destinate a cambiare. Per la prima volta, infatti, il modello di simulazione sviluppato dal giovane ricercatore tiene conto non solo della “storia” dei fenomeni sismici, ma anche della fisica che c’è dietro ad un terremoto.
In particolare, lo studio pubblicato sulla rivista Earth and Planetary Science Letters, ha simulato cosa accade quando due placche tettoniche continentali entrano in collisione formando catene montuose. I casi in esame nello studio riguardano le collisioni tra continenti, cioè i margini convergenti, che hanno permesso la formazione di Alpi, Appennini, Zagros e l’Himalaya.
Il risultato è stato che a guidare la distribuzione di probabilità che in queste quattro zone si verifichi un sisma con magnitudo anche superiore a 7 è un parametro, quello del tasso di convergenza, che mette in relazione la frequenza degli eventi sismici e la massima magnitudo. A spiegarci come è nato il modello è Dal Zilio:
“Siamo partiti dal concetto che le placche tettoniche si muovono sulla superficie terrestre con velocità che non sono costanti. Ad esempio, la velocità delle placche sull’Himalaya è di 4 centimetri l’anno, contro gli appena 1 o 2 centimetri l’anno di Alpi e Appennini.
Il nostro modello prende in considerazione due aspetti nelle simulazioni: sia l’evoluzione a lungo termine del margine convergente, che avviene con tempi dell’ordine dei milioni di anni, sia l’evoluzione a breve termine, il cosìdetto ciclo sismico, dove il range di tempo varia tra i 10mila e i 50mila anni. In questo modo siamo stati in grado di simulare gli eventi sismici che si sviluppano in una data catena montuosa”.
Il modello sviluppato da Dal Zilio e colleghi parte dunque da un approccio del tutto innovativo, che lo rende unico al mondo, come ha sottolineato il giovane ricercatore: “la caratteristica che rende il nostro modello unico al mondo è che riesce a riprodurre i terremoti attraverso tutta la catena. Quando eseguiamo una simulazione non analizziamo semplicemente un determinato evento sismico, ma otteniamo una riproduzione statistica di eventi che si propagano sull’intera catena montuosa.
Per farlo abbiamo lavorato a uno studio su diversi parametri, fino a individuare il tasso di convergenza come il parametro che meglio di tutti controlla sia la frequenza che la massima magnitudo dei terremoti nelle quattro zone studiate”.
Lo studio ha elaborato due modelli. Un modello unidimensionale per spiegare quale sia il parametro chiave del fenomeno, e cioè il tasso di convergenza. Il modello a 2 dimensioni, invece, è quello più importante perché descrive cosa accade nella catena montuosa rappresentandola come una sezione, spiega l’autore:
“Il modello principale da cui abbiamo ottenuto il 90 percento dei risultati pubblicati nell’articolo è sicuramente quello a 2 dimensioni. Il modello unidimensionale che proponiamo è servito per semplificare la spiegazione sul perché il tasso di convergenza sia il parametro chiave nella descrizione dei fenomeni.
All’aumentare del tasso di convergenza si ha una diminuzione della temperatura media dell’orogene (la porzione di crosta terrestre soggetta alla deformazione plastica quando le due placche continentali collidono, ndr), mentre aumenta la velocità di deformazione delle placche, dunque il dominio sismogenetico, dove cioè si possono sviluppare terremoti, è più spesso e più profondo.
Questo fa si che le faglie sismogenetiche siano allungate e arrivino più in profondità, tanto che si verifica un terremoto la rottura può propagarsi per una lunghezza maggiore, e la magnitudo finale diventa più alta. Il modello a 2D ci permette di vedere cosa accade in una sezione della catena montuosa, ma questo è ancora limitante: per questo motivo stiamo sviluppando un modello a 3 dimensioni che ci permetta di osservare come si propaga il terremoto”.
Come ogni modello, anche quello sviluppato da Dal Zilio presenta delle limitazioni che con ulteriori studi potranno essere superate. Le difficoltà incontrate riguardano non solo il poter osservare la propagazione della rottura indotta dal terremoto a in tutta la placca, ma anche aver avuto accesso a cataloghi che si sono rivelati a volte incompleti. Per poter ottenere una simulazione più possibile vicino alla realtà, infatti, è necessario partite da set di dati che siano completi, ci spiega l’autore:
“Abbiamo incontrato dei problemi con i cataloghi sismici, i cui dati erano necessari per la comparazione con quelli ottenuti dai nostri modelli. I dati però non erano di massima qualità, dato che spesso si lavora con cataloghi vecchi e incompleti. La situazione però sta rapidamente migliorando, per esempio le reti sismiche di Giappone e California sono molto avanzate e riescono a monitorare anche piccoli eventi sismici, fornendo un catalogo completo.
Cataloghi migliori potranno essere ottenuti anche in Italia grazie al progetto europeo AlpArray, a cui partecipa l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), che sta installando nuove stazioni sismiche proprio sulle Alpi. Il progetto è partito nel 2015 e ora stanno iniziando ad arrivare i primi dati, che integreranno quelli delle stazioni precedenti, permettendoci di avere una rete sismica ampliata e migliorata, con dati più precisi che potranno essere usati anche per lo studio delle crostali e della litosfera”.
Nonostante il modello fornisca una prima visione fisica del fenomeno, siamo ancora molto lontani dal prevedere i terremoti. Le simulazioni infatti riguardano la distribuzione di probabilità di un evento sismico, cioè permettono di realizzare una mappa del rischio più precisa e di individuare quelle zone sismiche in cui si potrebbero scatenare terremoti molto forti: “ciò che contraddistingue il nostro modello dagli altri modelli statistici è che abbiamo basato le simulazioni sulla fisica del fenomeno, mentre gli altri si basano su dati statistici ricavati dalla storia sismica di quella data regione. Questa è la grande novità, poter utilizzare finalmente dei modelli basati sulla fisica, che ci consentono di arrivare a delle valutazioni accurate del pericoloso sismico. Nel nostro studio abbiamo preso in considerazione quattro esempi: Alpi, Appennini, Zagros e Himalaya.
La differenza sostanziale è che in queste regioni molte volte si hanno delle magnitudo alte, ma non potentissime come quelle che si verificano in Giappone. Il vero problema di queste zone sismiche è la loro vulnerabilità. Al contrario del Giappone, infatti, parliamo di zone densamente popolate. Basti pensare alla pianura gangetica davanti all’Himalya, dove vivono milioni di persone. Anche Alpi e Appennini rappresentano una zona ad alta vulnerabilità, come dimostrato dai terremoti di Norcia e Amatrice del 2016. Infine c’è Zagros, dove il terremoto di novembre di magnitudo 7,2 ha fatto centinaia di vittime”.
Se prevedere il giorno, l’ora e il luogo in cui si verificherà un terremoto catastrofico non è possibile, è però possibile individuare le zone a rischio e fare quanto necessario per metterle in sicurezza, ha sottolineato Dal Zilio: “quello che possiamo sottolineare ora è che i terremoti non si possono prevedere, è necessario che tutti lo capiscano. Come scienziati, dobbiamo entrare nelle case delle persone, spiegare cosa è un terremoto e che non possiamo prevederlo, ma possiamo fare prevenzione. I terremoti infatti sono eventi naturali che sono sempre avvenuti, avvengono e avverranno, ma possiamo prendere delle precauzioni, come costruire tenendo conto delle mappe del rischio sismico e utilizzare tutte le misure antisismiche di cui oggi disponiamo”.
La ricerca si è concentrata sui mega terremoti, cioè eventi sismici con magnitudo superiore a 7, e la situazione in Italia è particolarmente delicata, se si tiene conto dei danni dei recenti terremoti che hanno colpito Norcia e Amatrice con eventi sismici di magnitudo al massimo 6. “I terremoti che noi in Italia consideriamo forti, sono in realtà di moderata magnitudo se paragonati a quelli che avvengono in Himalaya. Ciò non toglie che in Italia un terremoto di magnitudo pari a 7 o superiore avrebbe effetti catastrofici, tenendo conto di tutti i nostri reperti storici e le strutture che non rispettano i criteri antisismici. La nostra vulnerabilità, dunque, è ancora più alta del normale e c’è ancora del lavoro da fare”.
Se lo studio di Dal Zilio si è occupato solo dei margini convergenti, il suo gruppo sta lavorando anche ad altre tipologie di terremoti, originati ad esempio dalla subduzione tra una placca continentale ed una oceanica, come accade in Giappone, oppure dalla faglia trascorrente di Sant’Andrea, che causa i violenti terremoti in California. Il prossimo passo del giovane e brillante ricercatore invece sarà quello di finire il dottorato e di approfondire il suo studio, concentrandosi sul terremoto di magnitudo 7.8 del 25 aprile 2015 in Nepal, per capire se nel prossimo futuro in quella zona sismica potrebbero scatenarsi terremoti di magnitudo ancora superiori.
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