ricerca

Abbiamo clonato due macachi. E ora?

Si chiamano Zhong Zhong e Hua Hua e sono le prime due scimmie clonate con successo con la tecnica del trasferimento nucleare. Il traguardo apre nuovi scenari per la ricerca biomedica ma solleva anche numerose questioni etiche

macaco scimmia clonata Cina
Fotografia di Sun Qiang and Poo Muming/ Chinese Academy of Sciences

ANIMALI- Gli scienziati della Chinese Academy of Sciences di Shanghai hanno raggiunto un traguardo importante che ha subito attirato i riflettori da tutto il mondo: il team di Zhen Liu ha fatto nascere due piccoli macachi, a tutti gli effetti due cloni. Gli scienziati hanno usato la stessa tecnica che era stata utilizzata con la pecora Dolly, il primo mammifero clonato tramite trasferimento nucleare di cellule somatiche (SCNT). A guidare il lavoro, pubblicato sulla rivista Cell, è stato Qiang Sun, direttore dell’Institute of Neuroscience.

Le due scimmie, entrambe di circa un paio di mesi di età, sono in salute e vivono per ora all’interno di un incubatore. Si chiamano Zhong Zhong e Hua Hua – dalla parola Zhōnghuá, usata per indicare la Cina e/ o i cinesi -, dal punto di vista genetico sono perfettamente identiche e derivano dalla stessa coltura di cellule fetali di macaco, cresciute in piastre petri. Con quel feto abortito, dal quale sono state prelevate le cellule, condividono l’intero DNA: gli scienziati hanno creato 149 embrioni, 79 dei quali sono sopravvissuti e sono stati impiantati nell’utero di madri surrogate. Quattro di loro sono rimaste incinte ma per due la gravidanza non è andata a buon fine. Ce l’hanno fatta solo Zhong Zhong e Hua Hua, che ora i ricercatori monitorano con attenzione.

Il traguardo con la clonazione potrebbe aprire la strada a una nuova era della ricerca biomedica, dove la possibilità di creare animali geneticamente uguali consentirebbe di rimuovere molte variabili – dunque di studiare con più precisione – da patologie come Alzheimer e Parkinson fino ad HIV e autismo, nonché di identificare più rapidamente quei geni coinvolti nei meccanismi patologici. Allo stesso tempo si potrebbe ridurre anche il numero di animali necessari per la sperimentazione.

Eppure la questione ha numerosi risvolti etici, oltre che scientifici, e le domande sollevate dalla scoperta non sono poche. Da un lato sappiamo che, clonato con successo un primate, la possibilità di clonare anche gli esseri umani non è così remota e che le conoscenze per riuscirci sono grossomodo a portata di mano. Dall’altro molti esperti sottolineano che la tecnica è poco efficiente e siamo molto lontani anche solo dalla possibilità di creare con successo e in sicurezza “scimmie in serie” per la ricerca: il team di Liu ha fatto 21 tentativi di clonazione e solamente due hanno portato alla nascita di animali vivi e in salute.

Gli autori dello studio hanno più volte ribadito che il loro interesse primario è quello di far nascere animali destinati alla ricerca biomedica, e che non hanno alcun interesse né intenzione di clonare esseri umani. La salute delle due scimmie verrà monitorata molto da vicino, anche dal punto di vista dello sviluppo cerebrale, e sembra che il governo di Shanghai voglia scommettere su questo ambito di ricerca: in un’intervista a National Geographic i ricercatori cinesi hanno detto che il laboratorio di studi sulla clonazione verrà ampliato di oltre dieci volte.

Perché ci è voluto così tanto per clonare un primate, se già nel 1996 la tecnica aveva avuto successo con Dolly e negli anni a venire le fila degli animali clonati si sono infoltite di cani, maiali, gatti, ratti, conigli, cavalli e mucche, per un totale di oltre 20 specie? Il trasferimento nucleare prevede che in una cellula uovo non fecondata e privata del nucleo venga impiantato quello di una cellula somatica, prelevata da un altro animale. Ne risultano delle cellule embrionali perfettamente identiche a quelle del donatore del nucleo, fatta eccezione per il DNA mitocondriale. Così fu per Dolly, una pecora il cui patrimonio genetico era identico a quello della donatrice.

Ma per i primati è più complesso, infatti l’altro caso di clonazione riuscito non è stato portato avanti con SCNT ma con la fissione gemellare, o embryo splitting (un embrione già fertilizzato e in uno stadio precoce dello sviluppo viene diviso in più parti) per dare la vita a un macaco rhesus di nome Tetra. Solo due dei quattro embrioni risultanti dalla fissione riuscirono a sopravvivere, ma solo uno di quei due si sviluppò fino a dar vita a una piccola scimmia in salute. Era il 1999 e Tetra nasceva all’Oregon National Primate Research Center sotto la guida di Gerald Schatten, che tuttora studia la riproduzione e lo sviluppo umani, con un interesse per le cellule staminali e la terapia genica. L’anno successivo lo stesso team di ricerca ebbe anche la “paternità” di ANDi, il primo macaco rhesus geneticamente modificato, chiamato così facendo lo spelling al contrario di inserted DNA.

Per sorvolare gli ostacoli della clonazione con SCNT, nel quale gli scienziati si servono di una lieve corrente elettrica per “ingannare” l’ovulo in modo che proceda nel suo sviluppo a embrione come se fosse stato fecondato, arrivando a crescere nel grembo della madre surrogata e dando così vita a un piccolo in salute. In passato non si era riusciti a superare con successo lo stadio di blastocisti (come viene chiamato l’embrione a circa cinque giorni dalla fecondazione). Il team cinese ha cambiato la “ricetta” immergendo gli ovuli clonati nella tricostatina A, un composto che ha permesso di mantenere il DNA del donatore in condizioni ideali, e spingendoli a produrre enzimi che ne tagliassero alcune sequenze. La modifica sembra aver fatto il suo lavoro e ha permesso allo sviluppo di proseguire oltre la fase nella quale si erano bloccati gli esperimenti condotti finora, grazie all’attivazione di specifici geni.

Dal punto di vista etico e del nostro rapporto con gli animali, le reazioni sono arrivate rapidamente. Kathleen Conlee, vice presidentessa delle questioni legate alla ricerca sugli animali presso la Humane Society degli Stati Uniti, intervistata da National Geographic ha detto che “Ne emerge l’idea che gli animali siano sacrificabili, comodità a nostra disposizione”, che possiamo usare a nostro piacimento e per i nostri scopi. Allo stesso tempo l’obiettivo sul lungo termine sarebbe ridurre il numero di individui usati per la sperimentazione e migliorarne la qualità e la precisione, il che sarebbe positivo su entrambi i fronti: numero di animali impiegati e medicina umana.

Se per alcune branche della ricerca ci si sta gradualmente allontanando dall’impiego dei modelli animali, via via che si confermano tecniche alternative, per altre questi ultimi sono tuttora necessari. Da un lato la vicinanza dei primati con la nostra specie li rende i modelli più adatti, ma dall’altro è proprio l’essere animali tanto simili che ci rende più difficile accettarne l’utilizzo come soggetti della sperimentazione medica.

“La tecnologia ha fatto enormi passi avanti nell’ultimo decennio. Ci sono ambiti delle neuroscienze comportamentali che in apparenza sembrano perfetti per la clonazione, quando in realtà li stiamo già affrontando in altri modi”, ha commentato Eliza Blizz-Moreau, neuroscienziata comportamentale al California National Primate Research Center. “Non penso riusciremo mai a fare ricerca biomedica senza usare primati non umani”, ha detto invece Koen Van Rompay, virologo al California National Primate Research Center. “Sarebbe eccezionale se ci si riuscisse, ma per ora i modelli in vitro e al computer non sono sufficienti”.

Non resta che aspettare, per vedere come cresceranno queste due piccole scimmie che hanno riacceso un dibattito sopito da tempo in tutte le sue sfumature, compreso il modo in cui scegliamo di disporre delle altre specie a nostro vantaggio.

segui Eleonora Degano su Twitter

Leggi anche: Colpire i tumori a intestino e cervello con l’epigenetica

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".