Triplette di fotoni e spade laser
Ovvero, come gli esperimenti di un team congiunto di Harvard e del MIT hanno messo in evidenza alcune capacità sorprendenti dei fasci laser. Quali sono le possibili applicazioni di questa nuova forma di luce?
RICERCA – La fotonica è la parte dell’ottica che studia le modalità di controllo della propagazione dei fotoni, le particelle di cui è costituita la luce (abbiamo già parlato di applicazioni avanzate in questo campo qui). Per essere più precisi, i fotoni possono essere visti sia come particelle che come fenomeni ondulatori, e questa duplicità è descritto nella cosiddetta teoria corpuscolare-ondulatoria della luce.
Infatti, riducendo la questione a termini molto semplici ed intuitivi, è possibile rilevare sperimentalmente un comportamento dei fasci di fotoni simile a quello di altre onde, e quindi osservare fenomeni di riflessione, diffrazione, dispersione: un esperimento molto comune consiste, ad esempio nell’utilizzare un prisma per scindere la luce bianca del sole, o di altra sorgente, nelle sue componenti spettrali corrispondenti a diversi colori.
Tuttavia, è possibile rilevare anche un comportamento dei fotoni che li accomuna a particelle dotate di massa, deducibile sia dalle celebri equazioni di Maxwell, il potente modello matematico del campo elettromagnetico (e quindi della luce, vista appunto come onda elettromagnetica), sia da esperimenti condotti per la prima volta più di un secolo fa: parliamo della scoperta della cosiddetta pressione di radiazione, verificata sperimentalmente in modo indipendente da Lebedev nel 1900 e da Nichols e Hull nel 1901.
Di che cosa si tratta? Quando la luce, o un’altra onda elettromagnetica, investono una superficie materiale, su di essa si può misurare una pressione esercitata dalla radiazione: una dimostrazione del fatto che i fotoni trasportano, oltre che energia, anche quantità di moto, e pertanto si possono rivedere come particelle dotate di massa. E, come si sa, le particelle dotate di massa possono interagire tra di loro: urtarsi, deviare reciprocamente la traiettoria, o unirsi in strutture più complesse.
Tuttavia, non c’è mai stata una evidenza diretta di una interazione simile a quella delle particelle materiali tra fasci diversi di fotoni, che è pertanto rimasta per lo più confinata alla letteratura e alla cinematografia fantascientifica: l’esempio più famoso è costituito dalla cosiddetta spada laser, un’arma utilizzata dai cavalieri Jedi e dai loro avversari, i Sith, nella saga di Guerre Stellari (per inciso, OggiScienza ha già affrontato le anticipazioni tecnologiche della famosa antologia hollywoodiana in questo articolo).
Le lame delle spade laser, come noto a tutti gli appassionati del genere, pur essendo costituite da laser o plasma, non si attraversano reciprocamente, ma hanno la capacità di interagire tra di loro, scontrandosi come se fossero dotate di massa, e per questo possono essere utilizzate come armi negli epici duelli tra Jedi e Sith.
Tuttavia, come riportato in questa notizia, un team congiunto di fisici di Harvard, del MIT e di altre Università ha dimostrato per la prima volta che, in opportune condizioni, i fotoni possono interagire tra di loro, respingendosi, attraendosi ed aggregandosi come comuni particelle materiali.
L’articolo descrittivo dello studio, dal titolo “Observation of three-photon bound states in a quantum nonlinear medium” è stato pubblicato recentemente su Science: proviamo a capire più in dettaglio di che cosa si parla. Come chiarito nell’abstract, il mondo che ci circonda è costituito da sistemi complessi di particelle dotate di massa, come nuclei, atomi, o molecole, che interagiscono quindi in modo forte tra di loro.
Non altrettanto capita per i fotoni che, come già detto, sono caratterizzati da interazioni normalmente piuttosto deboli tra di loro. Tuttavia, il team di ricerca, guidato da Vladan Vuletic, professore di Fisica al MIT, ha realizzato un setup sperimentale in cui un raggio laser (ossia un fascio di luce collimato e coerente) è stato indirizzato verso una nube densa di atomi di rubidio ad una temperatura prossima allo zero Kelvin, ossia la più bassa ottenibile in natura. Una nota importante è che, in un fascio laser tradizionale, i singoli fotoni si distribuiscono nello spazio lungo la direzione di propagazione senza interagire o ‘accorparsi’.
Il risultato ottenuto è stato sorprendente: in uscita dalla nube, anziché rilevare un fascio laser con le stesse caratteristiche di quello in ingresso, sono state osservate delle strutture fotoniche più complesse, costituite da coppie o triplette di fotoni, da cui il riferimento nel titolo dell’articolo ai “three-photon bound states”, ossia stati caratterizzati da strutture costituite da tre fotoni. Le triplette hanno mostrato una significativa difformità rispetto al comportamento standard dei fasci di luce: è importante, infatti, ricordare che i fotoni, come già accennato in precedenza, si considerano normalmente privi di massa e si propagano alla velocità della luce.
Al contrario, le strutture di più fotoni rilevate durante l’esperimento hanno esibito una massa non nulla, pari ad un frazione della massa di un elettrone, ed inoltre una velocità di propagazione estremamente più bassa di quella della luce, pari a circa 3 chilometri al secondo, contro i 300.000 del caso dei singoli fotoni non interagenti. Queste due caratteristiche, unitamente alla già menzionata capacità di interagire creando strutture complesse, ricordano da vicino le proprietà di sistemi materiali: per sintetizzare, nell’esperimento si è ottenuta una sorta di effetto di materializzazione della luce.
Come si spiega il fenomeno e quali sono le possibili applicazioni? Secondo il modello proposto dai ricercatori che hanno condotto l’esperimento, la creazione di questa nuova e inusuale forma di luce è dovuta alla peculiare forma di interazione tra i fotoni del fascio entrante e gli atomi di rubidio costituenti la nube che i fotoni stessi attraversano: in pratica, un singolo fotone del fascio entrante può essere attratto da un atomo di rubidio, formando una struttura nota come polaritone: una sorta di ibrido tra un atomo e un fotone, appunto. Più polaritoni di questo tipo possono interagire, essendo dotati di un piccolo ammontare di massa dovuto alla loro parte ‘atomica’, legandosi tra di loro. In uscita dalla nube, però, gli atomi di rubidio restano dove si trovano, mentre in uscita i fotoni permangono nello stato bounded, ossia restano legati tra di loro.
In altri termini è come se, attraversando la nube di atomi di rubidio, i fotoni apprendessero dalla struttura materiale degli atomi delle informazioni su come collegarsi tra di loro, riuscendo appunto ad emergere in questa nuova forma, rallentata, appesantita e più complessa: in parte luce e in parte massa. O, per meglio dire, una nuova forma di luce mai sperimentata finora. Siamo allora in grado di manipolare la luce per creare spade laser? Sebbene l’accostamento sia suggestivo, sembra proprio di no: tuttavia, questa nuova capacità di manipolazione della luce per creare fotoni interagenti potrebbe essere utilizzata, a detta di Vuletic, per avanzate applicazioni nel campo del calcolo quantistico.
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