L’effetto dell’etichetta “Ogm”, una storia di differenze
Cosa succede "nel mondo reale" quando sulla confezione c'è scritto "prodotto con ingegneria genetica"? Rispondono due economisti che la pensano diversamente sugli Ogm.
RICERCA – In tutto il mondo sia reale che geografico, le associazioni scientifiche sono contrarie a contraddistinguere gli alimenti che contengono organismi geneticamente modificati (Ogm) e molte associazioni ambientaliste sono favorevoli per lo stesso motivo: serve a dissuadere i consumatori dall’acquisto.
I consumatori stessi sono per la distinzione e l’Unione Europea ne ha tenuto conto con il regolamento del 2014. Proprio in quel periodo, in 25 stati americani i produttori “No GMOs” rivendicavano nei tribunali la libertà di espressione garantita dal Primo Emendamento. La maggioranza dei consumatori che si proclamava “pro-etichetta” nei sondaggi votava contro nei referendum.
Grande era il disordine sotto il cielo
Con una legge del 2014, il Vermont imponeva la dicitura “prodotto con ingegneria genetica” a partire dal luglio 2016. Tre mesi dopo la legge scadeva – sugli scaffali dei supermercati i prodotti ci mettevano parecchi mesi di più -perché il governo Obama chiedeva alla Food & Drug Administration di stabilire uno “standard nazionale” (dovrebbe essere pubblicato entro fine luglio).
Nella letteratura scientifica, modelli ed esperimenti con scritte ipotetiche avevano dato risultati altrettanto contraddittori dei sondaggi e dei referendum. Due economisti, Jane Kolodinsky dell’università del Vermont, e Jayson Lusk dell’università Purdue, cercavano di capire qualcosa in tutta quella confusione.
Separatamente, tra marzo 2014 e marzo 2017 sondavano 7871 consumatori nel Vermont e nel resto del paese, chiedendo loro se la dicitura obbligatoria ne influenzava l’opinione sugli Ogm. Su Science Advances hanno pubblicato i risultati, preceduti da analisi multivariate, analisi a regressione multipla e cinque modelli. Insieme, compensano
- le difformità tra le domande poste da Kolodinsky nel sondaggio locale e da Lusk in quello nazionale;
- un eventuale effetto delle confezioni del Vermont nei cinque stati contigui tra cui il Connecticut che per legge aveva imposto una dicitura simile;
- la diversa composizione del campione;
- l’occorrenza o meno di campagne referendarie nello stato di residenze
e altre variabili ancora. Sono tappe affascinanti per chi scrive, noiosissime per altri ed essenziali per definire la “differenza nelle differenze”: di quanto diverge la variazione dell’opinione pubblica nel Vermont dalla sua variazione nel resto del paese prima e dopo il 2016.
Si può discutere della scelta dei metodi statistici, ma la divergenza è abbastanza ampia da reggere alle critiche:
Nel mondo reale dell’esposizione alla scritta “ingegneria genetica”, gli atteggiamenti verso i cibi GM sono migliorati:
Nel Vermont l’opposizione è diminuita del 19%, nel resto del paese è aumentata.
Da consumatori, insomma, non siamo tutti e sempre irrazionali. E se non bastasse vederlo confermare, c’è una ragione in più per ritenere questo studio una bella applicazione del metodo scientifico.
All’assemblea dell’Agricultural & Applied Economics Association, l’estate scorsa, Jane Kolodinsky aveva presentato un’analisi preliminare. Lusk era scettico. Insieme a Marco Costanigro dell’università del Colorado, aveva già verificato in due esperimenti che le confezioni “virtuali” non modificano le opinioni dei volontari. Perché mai quelle reali farebbero cambiare idea a un abitante del Vermont su 5?
Sul suo blog, Lusk rivela un’altra differenza ancora, questa volta tra pregiudizi:
Avevo avuto abbastanza discussioni con Jane da sapere che avevamo tendenze filosofiche diverse sulla desiderabilità degli Ogm. Ma si trattava di una faccenda empirica, così abbiamo messo da parte le nostre differenze, deciso di unire i nostri dati e di testare l’ipotesi.
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