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Conservazione delle piante: a rischio anche quelle che usiamo di più

Un indicatore, sviluppato da un centro di ricerca colombiano, getta luce su un trend preoccupante.

AMBIENTE – Quando si parla di conservazione della flora, è facile pensare che le specie di piante a rischio siano solo quelle che crescono in sperdute foreste pluviali: variazioni uniche e per questo rare, sconosciute ai più. Tuttavia un innovativo metodo per misurare la conservazione delle piante, ideato e sviluppato dal CIAT (Centro Internazionale per l’Agricoltura Tropicale, centro di ricerca situato in Colombia), mostra che nel folto gruppo delle specie a rischio rientrano molte piante selvatiche che utilizziamo  (più o meno consapevolmente) nella vita di tutti i giorni: da quelle usate in cucina (come vaniglia, cacao, cannella, caffè o camomilla), a quelle sfruttate dalla medicina, passando per piante usate come combustibili, per la produzione di vestiti, come foraggio per il bestiame da allevamento, o come semplice abbellimento (si pensi ai tanto amati abeti che, in questi giorni, stanno invadendo le piazze italiane in vista delle festività natalizie).

Crediti immagine: Pixabay

I dati non sono certo incoraggianti

L’indicatore delle piante utili (Useful Plants Indicator) sviluppato dal CIAT in collaborazione con il Global Crop Diversity Trust, il Dipartimento dell’agricoltura statunitense e diverse università e organizzazioni impegnate nella conservazione della biodiversità, ha classificato le piante di oltre 220 Paesi in una scala che varia da 1 a 100. Valori da 75 in su indicano specie “sufficientemente conservate”, che riflettono una “bassa priorità” in termini di sforzi e di politiche conservative da attuare. A differenza di quanto si possa ingenuamente pensare, delle quasi 7.000 specie considerate, solo il 3% è attualmente classificato come “a bassa priorità” o “sufficientemente conservato”.

Per giungere a queste allarmanti conclusioni, considerate dagli esperti particolarmente negative anche in vista degli obiettivi di conservazione delle specie, che si sarebbero dovute raggiungere (secondo una conferenza svolta ad Aichi, in Giappone, alla fine del 2010) entro il 2020, sono state raggiunte unendo due tipi di dati: i livelli di conservazione delle piante in situ (in aree protette come i parchi nazionali o riserve) ed ex situ (in banche genomiche, giardini botanici o altri siti di deposito per la conservazione).

La pianta del caffé

Prendiamo come esempio una pianta nei confronti della quale molti di noi, soprattutto alla mattina, si sentono particolarmente grati: la Coffea liberica, specie altamente ricercata dai produttori di caffè per la sua resistenza alle malattie, si assesta su un indicatore di 32,3. Non se la cava molto meglio la parente stretta più conosciuta dagli intenditori, la Coffea arabica (33,8), così come le altre specie di caffè analizzate, nessuna delle quali raggiunge un indicatore globale superiore a 36.
L’Abete del Caucaso, o abete di Nordmann (Abies nordmanniana), anche se in vetta alle “hit parade” degli addobbi natalizi, raggiunge un misero 13,5 a livello di conservazione della specie; o ancora il Theobroma cacao, il progenitore selvatico nativo della fascia tropicale delle Americhe a cui dobbiamo il cioccolato, raggiunge appena 35,4.

I risultati completi di questo lungo e meticoloso lavoro di classificazione e analisi saranno pubblicati sul numero di Marzo 2019 della rivista Ecological Indicators, ma una versione online, ad accesso libero, è stata rilasciata poche settimane fa. “L’indicatore sottolinea l’urgenza di proteggere le piante selvatiche più utili per l’uomo e per le sue attività – commenta Colin Khoury, primo autore della ricerca ed esperto in biodiversità del CIAT, con particolare riferimento al consumo di suolo dilagante e spesso incontrollato e ai bruschi, imprevisti sbalzi di temperatura, umidità, piovosità media dovuti alla profondo cambiamento climatico in atto- Adesso, infatti, non solo siamo in grado di misurare il livello di conservazione di questo patrimonio naturale e culturale Paese per Paese; abbiamo anche le informazioni necessarie per poter attuare politiche di conservazione mirate per la singola specie” che quindi siano più efficaci di operazioni su larga scala.

Ora che queste informazioni ci sono è necessario, però, correggere la rotta: ne va del nostro caffè (e non solo).

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Marcello Turconi
Neuroscienziato votato alla divulgazione, strizzo l'occhio alla narrazione digitale di scienza e medicina.