Oltre COP24: un obiettivo comune
Abbiamo chiesto a Pietro Greco un parere sulla conferenza di Katowice e quanto sia importante l'inclusione dei cittadini nelle decisioni sui cambiamenti climatici
Alla chiusura della conferenza mondiale sul clima, l'unico risultato concreto sembra essere aver perso tempo. Ne abbiamo discusso con il giornalista Pietro Greco.
AMBIENTE – Credevamo di avere più tempo a disposizione. Mai come adesso, invece, c’è stato bisogno di prendere delle decisioni per l’ambiente e di farlo in fretta. A Katowice, in Polonia, si è conclusa da poco la ventiquattresima conferenza sul clima degli Stati delle Nazioni Unite, COP24. Questa assemblea arriva subito dopo il rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sulla minaccia che i cambiamenti climatici in atto potrebbero rappresentare tra soli 12 anni.
Sarebbe stato normale aspettarsi prese di posizione forti, piani d’azione concreti, nuove normative per regolare l’emissione di gas serra. Tutti questi provvedimenti però rimangono soltanto promesse per il futuro.
Anche Pietro Greco, giornalista e scrittore di opere di divulgazione scientifica che a lungo si è occupato del tema del riscaldamento globale nutre dei dubbi sull’efficacia del sistema stesso delle COP. I meccanismi diplomatici in atto sarebbero troppo lenti e le tempistiche “insufficienti”. L’accordo di Parigi e l’obiettivo condiviso di rimanere sotto la soglia dei 2°C (meglio ancora se 1,5°C) di aumento delle temperature medie è stato un primo passo importantissimo, ma il percorso per realizzarlo è ancora troppo lungo. Basta considerare che ogni anno superiamo il record di inquinamento da gas serra dell’anno precedente.
Dopo Parigi, Katowice
Katowice si inserisce in questo ingranaggio che non parte soltanto come l’ennesima conferenza tra le molte che si terranno fino al 2020, anno in cui dovrebbero arrivare i risultati pensati a Parigi. COP24, insomma, è stato l’ennesimo tassello insignificante di un mosaico che rischiamo di non veder completato mai. Dobbiamo fare più in fretta. Sia l’IPCC che l’UNEP, l’agenzia delle Nazioni Unite per la protezione dell’ambiente, nei loro rapporti sostengono che abbiamo a disposizione soltanto 12 anni, trascorsi i quali ogni tentativo di intervento sulle emissioni sarebbe inutile.
Cercare di rispettare l’obiettivo di 1,5°C è fondamentale. Un aumento medio della temperatura globale anche di 0,5°C in più può tradursi in una catastrofe per decine di milioni di persone. Ondate di calore, eventi atmosferici estremi, siccità, inondazioni costiere che già stanno aumentando si moltiplicherebbero. La biodiversità del pianeta calerebbe drasticamente, le barriere coralline scomparirebbero. Interi paesi diventerebbero ostili alla vita e le popolazioni che ci vivono sarebbero costrette a fuggire. Un aumento di 2°C significherebbe il completo scioglimento dei ghiacciai e l’esodo del 37% della popolazione globale dai loro paesi verso regioni ancora abitabili.
Lo scorso 3 dicembre il presidente in carica di COP24, nel discorso di apertura ha affermato che “senza un successo a Katowice, non c’è successo a Parigi”. L’affermazione ha una doppia chiave di lettura; la prima è che se non si troveranno accordi in questa sede, tutte le buone intenzioni firmate all’assemblea francese si risolverebbero in un nulla di fatto. L’altra è relativa al fatto che Katowice non è stata scelta casualmente come sede della conferenza sul clima.
La Polonia, dove si vive letteralmente circondati dal carbone, subirebbe un contraccolpo economico disastroso nel caso in cui venissero applicate delle politiche “ecologiche”. È molto difficile per uno stato che basa la propria economia sull’estrazione di carbone, e che ne ha a disposizione per altri due secoli, cambiare rotta così drasticamente.
Rinunciare al carbone
E se nemmeno la Polonia, patria ospitante della più importante assemblea sul cambiamento climatico, vuole rinunciare alla sua parte di carbone (o, come hanno obiettato alcuni gruppi ambientalisti, nemmeno a un menu a base di carne), non si capisce perché dovrebbero farlo gli Stati Uniti di Trump le cui idee negazioniste sono note al mondo o l’Australia di Turnbull che ha un piede già fuori dall’accordo. O il Brasile di Bolsonaro, pronto ad abbattere l’Amazzonia e costruire nuove miniere. Senza parlare di potenze economiche emergenti come India e Cina.
Secondo Greco quello che manca, e la cui assenza provoca appunto questa “libertà” nelle politiche ambientali, è un governo centrale, un’istituzione mondiale per l’ambiente, perché “l’ambiente non conosce confini”. Le miniere di carbone polacche inquinano tutta l’Europa e le foreste sconfinate Brasiliane servono a tutto il mondo.
Senza un controllo centrale nemmeno la carbon tax, cioè l’ipotesi di una tassazione di tutti i prodotti che emettono monossido di carbonio nell’atmosfera, riuscirebbe a risolvere nulla. Infatti la tassa da premio Nobel dovrebbe estendersi a tutti i paesi del mondo, altrimenti alle industrie altamente inquinanti basterebbe spostare la propria sede in regioni prive dell’imposta sugli inquinanti.
Agire ora per garantire un futuro
Eppure se non paghiamo tutti qualcosa adesso, quello a cui dovremo rinunciare in futuro sarà inimmaginabile. Potremmo ottenere qualche miglioramento soltanto dal momento in cui tutti inizino ad accettare questo principio, perché quello del cambiamento climatico non è solo un problema economico quanto soprattutto sociale. Ogni politica ambientale ha bisogno del consenso dei cittadini, senza di esso è destinata a fallire. Un esempio è l’ecotassa sulla benzina che in Francia sta causando le rivolte da parte del gruppo dei gilet gialli. In realtà, sostiene Pietro Greco, “questa sarebbe una tassa più che giusta. Comunque la benzina costerebbe meno che in Italia ma è stata percepita come un’imposizione dall’alto”.
Proprio con la partecipazione, secondo Greco, potremmo sperare di raggiungere obiettivi che oggi ci sembrano irraggiungibili. La partecipazione attiva dovrà essere reale e soprattutto ex-ante, cioè dovrà precedere le decisioni politiche.
Una certezza che sta emergendo sempre di più è che le persone hanno voglia di essere coinvolte, lo dimostrano le recenti manifestazioni di Londra, Bruxelles, Colonia e Berlino a favore di politiche che vadano nella stessa direzione degli accordi di Parigi o quelle in Australia contro la decisione di uscire dal patto di Parigi.
I governi sanno, ma non fanno. Tutti i partecipanti di COP24 hanno accettato il cambiamento in corso, tutti conoscono le conseguenze che l’inattività di oggi potrebbe significare domani. Anche chi alza la voce e si oppone, riconosce che qualcosa, a breve, provocherà disastri nella propria nazione, ma l’egoismo è troppo e continuare a far finta di niente è estremamente facile.
La buona notizia è che in molti sembrano aver capito il messaggio. La cattiva notizia è che siamo terribilmente in ritardo. Il calendario virtuale delle Nazioni Unite arriva senza problemi al 2020, quello reale invece, ci dice che abbiamo molto meno tempo.
Articolo di Nicola Barzagli, video di Nicola Barzagli e Stefano Tamai.
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