Quello che ci è sfuggito nel 2018
Tutti assieme Enrico, Marco e Michele ci raccontano i film e le serie tv di fantascienza di cui non abbiamo parlato quest'anno.
STRANIMONDI – Nell’ultimo appuntamento del 2018 abbiamo pensato – come l’anno scorso – di dare spazio a film o serie che quest’anno, per un motivo o per l’altro, non abbiamo trattato nella nostra rubrica.
Altered Carbon
Netflix ha affidato all’autrice Laeta Kalogridis (già alle prese con la sceneggiatura di Shutter Island, film con Leonardo DiCaprio diretto da Martin Scorsese) il compito di adattare al piccolo schermo l’omonimo romanzo cyberpunk di Richard K. Morgan. Altered Carbon è ambientato nel futuro, più precisamente nel 2384, ed è la storia di Takeshi Kovacs, un guerriero che 250 anni dopo la sua morte si risveglia in un altro corpo, di nome Elyas Ryker. La trama principale si regge pertanto sul protagonista Kovacs/Ryker al quale viene chiesto di indagare sul presunto omicidio di una persona. Le vicende del protagonista quindi si innestano su uno sfondo ricco e molto curato, creato a partire dal potente affresco narrativo immaginato da Morgan, ovvero la possibilità dell’io di andare oltre la morte fisica. Questa idea tra utopia e distopia è molto esplorata ultimamente tra letteratura e schermo: rimanendo in ambito televisivo si pensi a Black Mirror, ma anche a un’altra serie Netflix come Travelers, dove l’idea di un “io” fluido si combina anche a quella, fondamentale nella fantascienza, dei viaggi nel tempo. Altered Carbon conta finora 10 episodi usciti nel 2018 ed è stata rinnovata per una seconda stagione. (Enrico Bergianti)
L’alienista
Dal futuro si viaggia all’indietro fino a fine Ottocento approdando a L’Alienista, altra serie Netflix tratta da un romanzo. Questa volta la fonte letteraria è The Alienist, opera d’esordio di Caleb Carr del 1994. Siamo nel 1896. Venuto a sapere nel cuore della notte del brutale omicidio di un giovane, orrendamente sgozzato e mutilato, lo psicologo criminale Laslzo Kreizler (Daniel Brühl) chiede all’amico John Moore (Luke Evans), illustratore per il New York Times, di andare sulla scena del crimine e di disegnare per lui la macabra scena. Questo è l’incipit della serie che sin dai primi fotogrammi mostra una grigia New York di fine XIX secolo, sulla scia della New York più o meno dello stesso periodo vista anche in The Knick. Il thriller e l’indagine s’intrecciano con la crescita della psicologia come disciplina, vista con grande diffidenza. Allo stesso tempo, però, c’è grande fermento: sono gli anni in cui un certo Sigmund Freud sta muovendo i suoi primi passi. Nel 1895 uscì Progetto per una psicologia scientifica, e tre anni più tardi, nel 1899, sarà il turno dell’opera fondamentale L’interpretazione dei sogni. (Enrico Bergianti)
Ready Player One
Uscito nel 2011, il romanzo di debutto di Ernest Cline è rapidamente diventato un bestseller di culto nel mondo nerd e quando quel mondo è diventato mainstream, ha inevitabilmente suscitato le attenzioni di Hollywood. In fondo, il libro di Cline è un concentrato di quel citazionismo nostalgico oggi così di moda, che rievoca giochi e storie degli anni ‘80 e ‘90, mescolandoli in una gara virtuale per accaparrarsi l’eredità del creatore di una pervasiva realtà virtuale, in un futuro molto prossimo. Diversi grossi nomi erano stati ipotizzati per la regia – Christopher Nolan, Robert Zemeckis, Matthew Vaughn, Edgar Wright, Peter Jackson – ma alla fine l’ha spuntata Steven Spielberg. Uno che l’immaginario glorificato da Cline ha in parte contribuito a creare.
Il film è una festa per gli occhi e non è solo questione di effetti speciali ben fatti, ma dell’uso di questi effetti che si fa, amalgamandoli nella narrazione. Narrazione che, va detto, è molto semplice e prevedibile, basata su personaggi piuttosto piatti e stereotipati. Ma il libro da questo punto di vista non era certo meglio, anzi, spesso il testo scritto veniva soffocato dalla massa di citazioni e riferimenti nerd, che invece sul grande schermo può essere gestita in maniera più fluida, senza appesantire troppo. Se la scrittura di Cline è mediocre, la regia di Spielberg è invece solida e sa come dare ritmo e coinvolgimento, aggiungendo anche alcune trovate notevoli come la scena nell’Overlook Hotel di Shining. Peccato però per la sua mancanza di coraggio nella rappresentazione dei protagonisti: nel libro, Wade, Samantha ed Helen sono sovrappeso, ma questa caratteristica è scomparsa nel film, appiattendosi sui canoni hollywoodiani. Spiace anche per la relativa scarsa presenza di Dungeons & Dragons e dei giochi di ruolo in generale, che nel libro avevano più spazio ma nel film vengono nettamente soverchiati dall’immaginario cinematografico e videoludico.
In definitiva, Ready Player One è quindi un film divertente, molto leggero, visivamente impressionante, migliore del libro da cui è tratto, che rimane però saldamente ancorato a una celebrazione della cultura nerd fatta di citazioni, nostalgia e strizzatine d’occhio. (Michele Bellone)
Pacific Rim – La rivolta
Da tempo si aspettava il seguito di Pacific Rim, il primo film capace di portare in maniera efficace e dirompente i grandi robot e i grandi mostri della tradizione fumettistica giapponese. Un film fracassone, semplice, lineare e molto divertente, realizzato da un regista abituato a passare da film d’autore (Oscar nel 2006 con Il labirinto del fauno) a film d’azione (Blade II). Del Toro doveva dirigere anche questo secondo capitolo, che però ha avuto una produzione travagliata che ha portato il regista messicano a partecipare come produttore, lasciando la regia a Steven S. DeKnight, showrunner della serie Spartacus, mentre il protagonista è John Boyega, che interpreta il figlio del personaggio di Idris Elba del primo film.
Se già il primo capitolo non puntava certo sulla trama e l’introspezione, Pacific Rim – La rivolta spinge ancora di più l’acceleratore sulla spettacolarità fracassona, sulle risse fra robot e mostri, su esplosioni e distruzioni di tutto ciò che c’è nei dintorni. E ovviamente non manca il più classico degli scienziati pazzi. Chiaramente si tratta di un film pensato per avvicinare i più giovani a un’ambientazione che finora aveva conquistato i fan dei vecchi anime di robottoni giapponesi, e che punta tutto sul marchio, sull’attore protagonista e sul fare tanto casino. (Michele Bellone)
The Good Place
Michael Schur, noto anche dalle nostre parti per il suo lavoro di sceneggiatore per The Office, ci porta nell’aldilà. Più precisamente in paradiso, il good place del titolo, dove finisce la trentenne Eleanor Shellstrop (Kristen Bell) dopo una improvvisa dipartita mentre faceva la spesa in un mall in Arizona. Solo che, in realtà, la sua non è stata proprio una vita tanto giusta da meritare di passare l’eternità in un luogo perfetto in compagnia della sua anima gemella…
Con il più classico degli escamotage della commedia, mettere un protagonista inadatto nel posto sbagliato, cominciava la prima stagione della serie tv targata NBC (e poi distribuita da Netflix) di cui nel 2018 è arrivata in Italia (su Infinity TV) la seconda stagione. Siamo lontani dalla fantascienza in senso stretto, e più vicini alla commedia fantastica, ma la scrittura è talmente convincente che ci si lascia presto trasportare dalle avventure di Chidi (insegnante di filosofia morale, che cerca di mettere sulla retta via Eleonor), Tahani (la perfetta vicina di casa con l’accento british) e gli altri. C’è un altro aspetto che va sottolineato qui, ovvero il personaggio di Janet, sorta di aiutante-automa-tuttofare che risponde alle richieste di The Good Place, che può essere letto come un leggera presa in giro dei vari Siri, Alexa e compagnia AI che sono arrivati sul mercato negli ultimi anni. E poi c’è quel colpo di scena verso la fine della prima stagione che cambia tutto… ma non vi diciamo di più! (Marco Boscolo)
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