Non tutte le catture di un peschereccio arrivano al mercato. Solo una parte delle catture, infatti, ha valore commerciale. Lo scarto è costituito dagli esemplari rovinati dalle reti, dalle specie senza mercato (stelle marine, per esempio), dagli individui sotto la taglia minima stabilita per legge e anche da tutti gli esemplari oltre la quota assegnata per una certa specie. Tutto questo viene gettato nuovamente in mare, permettendo ai pescatori di caricare l’imbarcazione in modo ottimale dal punto di vista economico.
Ora una parte di questa pratica non sarà più possibile per i pescherecci dell’Unione europea, che dovranno osservare l’obbligo di sbarco. Tutti gli esemplari sotto taglia minima catturati dai pescatori dovranno essere portati a terra. Introdotto dal regolamento Regolamento n. 1380/2013, l’obbligo di sbarco ha cominciato a essere applicato gradualmente dal 2015, partendo da alcuni tipi di pesca, ma dal primo gennaio di quest’anno riguarderà tutti i pescherecci.
L’obiettivo della legislazione è la protezione delle risorse ittiche
Il pescato scartato e gettato in mare, infatti, o è già morto o ha poche possibilità di sopravvivere. Obbligando i pescherecci a tenere a bordo, registrare e sbarcare tutte le specie commerciali, di tutte le taglie, si spera di migliorare le stime di mortalità da pesca e di incentivare i pescatori all’adozione di tecniche più selettive, che minimizzino il prelievo delle specie non insidiate e di taglia non adeguata. Infatti una volta sbarcato lo scarto non potrà essere venduto per il consumo umano, ma solo all’industria (per esempio quella mangimistica), a un prezzo notevolmente inferiore o, più probabilmente, sarà avviato alla discarica.
Il regolamento è stato criticato dai pescatori ed è stato al centro di aspre battaglie politiche. Una critica di carattere generale è che l’obbligo di sbarco rischierebbe, specialmente per alcuni tipi di pesca, di mettere in ginocchio il settore. Non tutti si possono permettere gli investimenti necessari per rispettare la normativa e rimanere profittevoli. Ma anche tra gli esperti di pesca sostenibile è in corso un dibattito: anche se sulla carta l’obbligo di sbarco promette di migliorare le condizioni degli stock ittici nelle acque della Ue, nel mondo reale potrebbe essere più complicato.
Il dibattito è aperto
Simone Libralato, ricercatore all’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) a Trieste, è tra gli autori di uno studio sui possibili effetti dell’obbligo di sbarco nel Mar Mediterraneo. Secondo questo lavoro, pubblicato la scorsa estate su ICES Journal of Marine Science, l’obbligo di sbarco nel nostro mare rischia di non essere efficace e, forse, di peggiorare la situazione.
“Lo scarto che i pescatori dovrebbero portare in porto cambia a seconda delle zone, la percentuale è stimata intorno al 13% del pescato commerciale. Questa biomassa attualmente torna nel mare e alimenta diversi organismi marini che la riciclano, con l’obbligo di sbarco sarebbe semplicemente sottratta all’ecosistema.”
Lo scarto gettato fuori bordo entra nella rete trofica, ovvero viene consumato da una quantità di diversi organismi “spazzini”, dai crostacei sul fondale agli uccelli in superficie. In un mare come il Mediterrano, spiega il ricercatore a OggiScienza, il ruolo di questi organismi nell’ecosistema è determinante. L’obbligo di sbarco, sottraendo risorse ulteriori all’ecosistema, si tradurrebbe a cascata in una piccola ma significativa diminuzione della biomassa marina.
Nelle intenzioni l’obbligo di sbarco dovrebbe indurre a minimizzare, nel tempo, le catture inutili con un beneficio ecologico netto. Questa strategia è pensata per i mari dove le catture sono già soggette a quote, ovvero è assegnata una quantità massima di catture e si controlla quanto ogni peschereccio pesca di ciascuna specie. Con l’obbligo di sbarco lo scarto è conteggiato nelle quote delle varie specie e quindi l’obbligo non comporta un aumento del prelievo di risorse.
Cosa succede nel mar Mediterraneo
Ma nel mar Mediterraneo le quote sono applicate solo al tonno rosso e al pesce spada, mentre per la gestione dello sfruttamento di altre specie ci si affida a misure a monte, costituite dalla taglia minima e dalla limitazione dello sforzo di pesca. Con quest’ultimo si cerca di controllare le catture regolando il numero di battelli e i giorni di pesca anche tenendo conto dell’attrezzo di pesca utilizzato. In Mediterraneo quindi l’obbligo di sbarco è applicato alle specie con taglia minima e non essendoci quote lo scarto sbarcato va ad aggiungersi alle catture commerciali. Questo sistema, benché più flessibile, renderebbe l’obbligo di sbarco negativo da tutti i punti di vista. In queste condizioni infatti si costringono i pescatori a lavorare di più per trasportare lo scarto a terra, in parte incentivando a pratiche più selettive ma anche a forme di illegalità.
“Inoltre – osserva Libralato – quello che ora è gettato o venduto per poco, potrebbe acquisire nel tempo un valore: ipoteticamente in futuro potrebbe nascere la domanda di utilizzo questo materiale di scarto per la produzione di molecole ad alto valore aggiunto. Questo intensificherebbe ulteriormente il prelievo di risorse, invece di ridurlo.”
Qual è allora il modo migliore di mitigare questi effetti dell’obbligo di sbarco nel nostro mare? Secondo i modelli dei ricercatori, l’introduzione di nuove quote e la modifica delle maglie delle reti sono le migliori soluzioni tra quelle testate in grado di attenuare gli effetti negativi dell’obbligo di sbarco. Entrambi le soluzioni però, e in particolare le quote, non sarebbero popolari nel settore, nonostante il fatto che nel Mediterraneo le popolazioni che sono soggette a quote sono quelle che mostrano uno sfruttamento sostenibile.
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