Il mio cancro al seno da libera professionista
"Ho perso diversi clienti, che non si fidano più se hai avuto un tumore. La mia lotta oggi è raccontare la mia esperienza, riesumare quelle di altre dal sottosuolo del non detto".
“Il dato di fatto è che ancora oggi, a distanza di quattro anni dall’inizio del mio percorso, fatturo la metà di quanto guadagnavo prima della malattia. Di cancro al seno guariamo in tante, sempre di più, oggi è normale trovarsi a condividere un ‘anch’io’ con un’altra donna mentre fai la fila per il pane, o sei in autobus. Anche se sei una persona che da trent’anni lavora e paga le tasse e la propria cassa di previdenza, anche se ti attrezzi con un’assicurazione, anche se hai i risparmi da parte. Anche se di lavoro sei una consulente in ambito biomedico e anche se da sempre lavori su te stessa per apprendere tecniche per superare i momenti di avversità, al di là della malattia”.
Carla Fiorentini non è certo una persona che potrei definire fragile. L’ho incontrata la prima volta di persona un paio d’anni fa, in occasione di un corso di formazione per specialisti sanitari. Eravamo state invitate entrambe come relatrici. Carla, ben più grande di me di età, è un vulcano e mi colpisce subito per la sua grande capacità di saperti tenere attento mentre parla. Oggi, mentre mi racconta la sua storia di paziente con un tumore al seno individuato già a uno stadio avanzato, me la immagino con tutta la sua grinta a combattere fino a uscirne salva. Una grinta che non tutte le donne hanno. Per questo Carla ha raccontato la sua storia in un libro “Quattro passi in galleria. Quando non vedi la fine del tunnel, arredalo” (Youcanprint, 2018).
Quattro anni fa a Carla viene diagnosticato un tumore al seno. Si tratta – le dicono in un primo momento – di un piccolo nodulo di cinque millimetri. In realtà a un esame più approfondito condotto in un altro centro, sono due i noduli, uno a destra e uno a sinistra, e il più grande ha un diametro di cinque centimetri, non millimetri. “L’aspetto sconcertante è che io, essendo paziente a rischio, ero da anni coinvolta nello screening che prevede la mammografia e l’ecografia ben prima dei quarant’anni. Eppure, come può capitare talvolta, il tumore non viene individuato. Anzi, nel momento della diagnosi ci si accorge che ha già coinvolto i linfonodi”.
Un lungo percorso
Inizia il travaglio: chirurgia, chemioterapia, radioterapia, ricostruzione. Va tutto per il meglio, ma passano due anni, un periodo lungo, dove la prima cosa a saltare è chiaramente il lavoro. “Quando stai seguendo terapie di questo tipo, in particolare nei sei mesi di chemioterapia, non riesci a lavorare come prima e per un libero professionista è un grosso problema dover avvisare i clienti, ma fa parte della professione”. Il problema è che intorno a te non c’è nessun supporto economico in grado di sopperire alla mancanza di guadagno. Non paghi nulla di tasca tua, è vero, né visite, né operazioni, né farmaci. Ma un malato ha pur sempre l’affitto o il mutuo, che a Milano dove lei vive non sono bassi, le rate universitarie dei figli o quelle dell’asilo, le bollette, le rate dell’auto, l’assicurazione della casa. Tutto quello che una vita comporta.
Oltre alle difficoltà che possono sopraggiungere, non contemplate nell’assistenza oncologica gratuita, come i problemi ai denti conseguentemente alle terapie, o l’infermiera che ti aiuta nella pulizia del catetere ogni settimana per i sei mesi di chemio. Tutte cose che ti devi pagare di tasca tua.
La tua cassa di previdenza non ti aiuta. Carla ha fortunatamente da anni un’assicurazione pagata a parte e dei risparmi messi da parte in trent’anni di lavoro. E ha un marito accanto. “L’assicurazione ha pagato, ma il giorno dopo – ovviamente – mi ha cancellato la polizza. Fuori. Ciao. È chiaro, non mi stupisce, ma dentro di me io so che sono all’inizio della mia battaglia contro il cancro e che anche dovesse andare tutto bene, come poi è capitato, vincere la battaglia non significa aver vinto la guerra. La possibilità di una recidiva esiste”.
Persone, non “solo” pazienti
L’elemento cruciale della malattia, mi racconta Carla, è trovarsi a viverla in un sistema che ti percepisce come persona innanzitutto e non come un paziente passivo, che ha qualche cosa. È un passaggio che emerge in quasi tutte le conversazioni che ho con le persone che mi raccontano le loro vite pazienti. “Io ho scelto da subito per ragioni strettamente personali un ospedale piccolo, cambiando addirittura regione, ed è stata una scelta felicissima per me perché ho trovato una realtà magari non efficientissima, ma sicuramente efficace” racconta Carla.
“Ho sperimentato anche il contrario e so di che cosa parlo. Per la radioterapia mi ero spostata in una clinica convenzionata, perché nell’ospedale dove ero seguita non c’erano i macchinari necessari. Siamo in sala d’attesa, io e mio marito. Abbiamo passato insieme i mesi difficili della diagnosi, dell’operazione, i sei cicli di chemioterapia. Finalmente entriamo e il medico ci spiega – è obbligato a farlo – gli effetti collaterali e i rischi della terapia. Mio marito chiede quale sarà il beneficio, in rapporto ai rischi e la risposta è raggelante: ‘Ma lo sa che sua moglie è una T3, sì?’ Una T3. Penso avrebbe fatto meno male una perifrasi stile ‘a uno stadio abbastanza avanzato della malattia’”, mi racconta Carla, e la sento ancora arrabbiata per questo dolore gratuito.
“Il mio viaggio è andato bene, sia per i grandi medici che ho incontrato, che per la mia capacità di capire che stavo cambiando definitivamente. Che non è vero quello che ti raccontano: non si tratta di aspettare che passi l’inferno e che tutto torni come prima. Anche dopo cinque anni non sei definitivamente guarita dal cancro. Ogni febbre alta, ogni perdita di peso, significa paura. Credo che siamo in un’epoca che ancora non ha allineato il fatto che sempre più persone convivono con la malattia, dato che oggi si muore sempre meno, con la concreta demolizione del tabù che la malattia rappresenta”.
Carla mi racconta di diverse donne che tengono nascosto il cancro al proprio datore di lavoro per paura che la propria carriera futura ne risenta. Che il cancro vanifichi tutto quello per cui si ha lavorato. “Io stessa ho perso diversi clienti, che non si fidano più se hai avuto un tumore. La mia lotta oggi è raccontare la mia esperienza, riesumare quelle di altre dal sottosuolo del non detto. Dobbiamo parlarne, tanto, molto di più, perché anche superare il cancro non diventi una condanna”.
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Nota della redazione: il 6 marzo 2019 l’articolo è stato modificato, eliminando un riferimento alla prefazione del libro erroneamente attribuita a Geppi Cucciari.