Gaming disorder: è davvero emergenza videogiochi?
La dipendenza da videogiochi è stata inserita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità nel manuale diagnostico ICD-11. Non tutti gli esperti concordano che le evidenze siano sufficienti.
A maggio, a Ginevra, si è svolta la 72a Assemblea Mondiale della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, con lo scopo di aggiornare l’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (ICD-11), il testo di riferimento per l’identificazione di malattie e tendenze sulla salute a livello globale. Uno degli aspetti più interessanti e controversi emersi dall’assemblea è stata l’introduzione del Gaming disorder (dipendenza da videogame) nell’ICD-11, all’interno della sezione relativa ai disturbi del comportamento legati alle dipendenze, riconoscendolo, quindi, come una vera e propria malattia.
La dipendenza da videogiochi viene definita come “una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, manifestati da: un mancato controllo sul gioco; una sempre maggiore priorità data al gioco, al punto che questo diventa più importante delle attività quotidiane e sugli interessi della vita; una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative personali, familiari, sociali, educazionali, occupazionali o in altre aree importanti”. Affinché possa essere diagnosticato un caso di gaming disorder i comportamenti descritti devono presentarsi per una durata di 12 mesi, anche in maniera discontinua.
Questa decisione dell’OMS ha suscitato un acceso dibattito all’interno della comunità scientifica e la stessa industria videoludica ha mosso delle critiche verso questa definizione. Per capire meglio le implicazioni del riconoscimento del gaming disorder come malattia e le problematicità della sua definizione abbiamo intervistato Viola Nicolucci, psicologa e psicoterapeuta che si occupa da diversi anni del rapporto tra psicologia e nuovi media. La dottoressa Nicolucci fa anche parte di Checkpoint, organizzazione no-profit che si occupa di fornire risorse sulla salute mentale attraverso il videogioco, dirette sia ai giocatori che agli sviluppatori.
Quali sono le criticità della definizione di Gaming Disorder inserita nell’ICD-11?
Innanzitutto il percorso che ha portato al suo inserimento nell’ICD-11. Nella tarda primavera del 2018 l’OMS ha reso ufficiale la proposta di inserimento in questo manuale diagnostico, producendo molta confusione nei media e negli specialisti del settore che credevano che l’entrata in vigore fosse immediata. Si è creata, invece, una situazione inedita, in cui l’OMS ha inserito un nuovo disturbo nell’ICD-11 prima di avere delle evidenze concrete, suggerendo alla comunità scientifica di fare ulteriori studi per avere maggiori conferme. I problemi qui sono diversi. Da un lato, il periodo di un anno dato dall’OMS è veramente breve per avere dei riscontri attendibili nel campo della ricerca. Dall’altro, questa situazione può influenzare negativamente la qualità degli studi, che tendono a diventare di tipo confermatorio, andando a cercare conferma di un’ipotesi e mancando, così, di un’esplorazione più ampia del problema.
Sempre nel 2018 un gruppo di ricercatori internazionali, di cui fa parte anche l’italiano Adriano Schimmenti (uno dei maggiori esperti italiani nell’ambito delle dipendenze comportamentali n.d.r), ha presentato una lettera aperta all’OMS in cui si esprimono dei dubbi riguardo al riconoscimento della dipendenza da videogiochi, in quanto fenomeno poco studiato e di cui non si hanno dati chiari e definitivi. Un altro problema è come il gaming disorder è stato descritto dall’OMS, presentando più una descrizione che una sintomatologia chiara. Mancano, quindi, degli strumenti di valutazione e quelli che sono stati utilizzati finora nella ricerca riprendono quelli utilizzati per l’internet gaming disorder, diverso, quindi, dal gaming disorder, che già presenta basi scientifiche molto esili.
In che senso?
Nel 2013 l’American Psychiatric Association ha inserito l’internet gaming disorder nel manuale Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders 5 (DSM-5), nella sezione delle condizioni che necessitano di maggiori studi. Nella definizione di questo disturbo si sono tenuti in considerazione tutti quei giochi sociali online molto popolari sui social network, come Farmville, escludendo totalmente il gaming offline. La sintomatologia descrive nove sintomi e basta rispettarne cinque affinché sia diagnosticato l’internet gaming disorder.
Questa definizione è stata criticata da studiosi come Christopher Ferguson, esperto dei media della Stetson University. Proprio Ferguson, alla Conference of Psychological Sciences di marzo a cui ho partecipato, ha dimostrato quanto fosse fragile la sintomatologia descritta nel DSM-5 attraverso un piccolo gioco a cui ha sottoposto alcuni colleghi. È emerso come chi abbia delle passioni o degli hobby, come ad esempio lo sport, soddisfi facilmente i cinque sintomi dell’internet gaming disorder, ma nessuno si sognerebbe di proporre la definizione di una dipendenza da calcio, o da libri. Questi sintomi, inoltre, sono stati adattati da una ricerca condotta in Cina ma che non viene citata nel DSM-5. La mancanza di una definizione univoca, la scarsa base scientifica sulla quale sono stati formulati i sintomi e l’assenza di protocolli di trattamento per l’internet gaming disorder, quindi, sono problemi che si riflettono anche sul gaming disorder, che prende spunto da quella definizione applicandola anche al gaming offline.
Se le evidenze scientifiche ad ora non confermano in maniera chiara questo disturbo, cosa ha spinto l’OMS inserire il gaming disorder nell’ICD-11?
Probabilmente un aspetto può essere il fatto che alcuni sistemi di welfare utilizzano l’ICD-11 per concedere rimborsi per le prestazioni sanitarie. Inoltre, ci sono pressioni dai governi asiatici per il riconoscimento del gaming disorder. In questi paesi il fenomeno dell’abuso del gaming ha una portata molto diversa rispetto ai paesi occidentali, sia a livello quantitativo che qualitativo. Inoltre, lo stesso ambiente sociale e culturale è molto diverso dal nostro e, non a caso, vede già da diversi anni discussioni attorno al fenomeno degli hikikomori, ovvero giovani che vivono volontariamente un forte isolamento sociale. I ragazzi ritenuti dipendenti da videogiochi vengono, talvolta, rinchiusi in strutture dallo stampo militare, che poco hanno a che fare con il trattamento della salute mentale. In alcuni paesi come la Sud Korea l’istituzione del gaming disorder sta trovando comunque la resistenza degli specialisti.
Quindi un problema di dipendenza da videogioco non esiste?
La ricerca non nega in nessuno modo che ci siano dei casi di abuso del videogioco. Il rischio di insistere su un disturbo che non ha basi scientifiche, senza avere dei protocolli di cura ufficiali, però, è quello di non identificare il vero problema che potrebbe portare una persona a passare la maggior parte del proprio tempo giocando. Un importante studio del 2017 suggerisce che il gaming problematico sarebbe una manifestazione di disagi più profondi, quale l’assenza di alcuni bisogni psicologici primari come l’autonomia (n.d.r. la possibilità di scegliere in modo indipendente), la competenza (n.d.r. la soddisfazione nell’essere bravi a fare qualcosa) o la relazionalità (n.d.r il bisogno di fare parte di un contesto sociale).
Questi sono i tre fattori fondamentali della self-determination theory di Deci e Ryan, largamente utilizzata dall’industria del gaming nei videogiochi. In questo modo è molto facile che una persona con un problema di frustrazione rispetto a questi bisogni trovi soddisfazione nel gioco. Il gaming diventa, quindi, non la causa di un di disagio ma una compensazione. Questo, ovviamente, nel caso in cui all’individuo piaccia videogiocare. In caso contrario troverà un’altra strategia di compensazione. Demonizzare i videogiochi, quindi, contribuisce a perpetrare stereotipi negativi verso i giocatori stessi, isolando così ancora di più chi davvero ha un problema clinico grave, che non cercherà aiuto.
A livello pubblico ci sono molte credenze errate sui videogiochi. Ad esempio che rendono violenti, nonostante questa assunzione sia stata più volte smentita da ricerche sull’argomento. Come mai l’opinione pubblica è portata a ritrarre il videogioco in termini così negativi?
I videogiochi esistono da diversi decenni ma solo negli ultimi anni hanno avuto una vera e propria esplosione di popolarità. Da sempre ogni nuova tecnologia che diventa di massa deve fare i conti con le paure e le preoccupazioni di una generazione che non conosce l’argomento e non l’ha vissuto. Questa mancanza di conoscenze genera panico morale e credenze che attecchiscono a livello di opinione pubblica, ma a cui neanche molti specialisti sono immuni. Ho poi la sensazione che viviamo in un momento in cui le persone non si accontentano delle informazioni scientifiche. Non riescono a dare un valore alla scienza. Per questo è fondamentale, ora più che mai, che le definizioni dei disturbi siano basate su metodologie sperimentali affidabili. L’industria videoludica, inoltre, è restia a fornire dati che potrebbero essere utili alla ricerca o non fanno informazione attorno al videogioco come medium, che è molto più variegato di quel che si crede.
Ci sono consigli che si sente di dare ai genitori che vorrebbero orientarsi meglio nell’ambiente videoludico, che probabilmente non conoscono? Quali strumenti ci sono per un genitore per capire se un gioco è adatto al/alla proprio/a figlio/a?
Esiste da anni un sistema di classificazione chiamato PEGI (n.d.r sigla per Pan European Game Information) che appone dei loghi facilmente riconoscibili sulle copertine dei giochi specificando l’età minima consigliata per la fruizione di quel particolare gioco, accompagnato da altri loghi che precisano il contenuto che ha determinato questa scelta. La classificazione PEGI mette anche a disposizione un’applicazione gratuita grazie alla quale il genitore può cercare dei giochi consigliati per una determinata fascia di età oppure cercare in che fascia si colloca un particolare titolo. Altra fonte di informazione è Youtube e la vasta comunità di gamer presenti sulla piattaforma, dove si può comprendere che esiste un mercato che non è solo quello dei grandi titoli presenti sugli scaffali dei negozi di videogiochi.
C’è, infatti, un mercato indipendente che produce giochi di valore, anche tra mille difficoltà. Un’altra indicazione che mi sento di dare è di far entrare la tecnologia, in questo caso il videogioco, nella vita famigliare e di non lasciarla in una stanza in cui non si sia tutti insieme. L’esperienza attiva e condivisa del videogioco è importante, in quanto il genitore ha il ruolo di modello per il bambino. Spesso i genitori faticano a mettersi in gioco a causa di una serie di resistenze psicologiche e di stereotipi, come quelli che vedono il gioco nella sua sfera digitale come una perdita di tempo. Sarebbe importante che il genitore creasse un dialogo con il/la figlio/a attorno al gioco che sta giocando facendo delle domande sulle attività di gioco come “ti piace questa storia? Mi spieghi perché? A me questo non piace mi spieghi perché a te si?”.
Però bisogna iniziare da bambini così che questi imparino a dare valore all’attività di gioco e al tempo che vi dedicano. Se il genitore compra un gioco al/alla figlio/a e poi gli/le dice che fa male, in quest’ultimo/a si creerà un conflitto psicologico che si protrarrà nel tempo e di cui ancora non sappiamo le conseguenze. Ci sono studi che hanno dimostrato come gli adulti che ritengono che i giochi possano far sviluppare comportamenti violenti sono adulti che non conoscono il videogioco e quando sottoposti a gaming cambiano opinione. Come per molte cose l’esperienza diretta fa ridimensionare le paure.
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