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Uccelli invasivi, la ricetta del successo

Per 700 specie di uccelli alieni diventate invasive, un clima poco soggetto a eventi estremi e un ambente simile a quello d'origine sono elementi cruciali per stabilirsi in una nuova area.

Fotografia: Tim Blackburn

Le specie aliene invasive rappresentano una delle principali minacce alla conservazione della biodiversità; inoltre, possono avere un impatto negativo sull’ambiente causando la diffusione di malattie, danneggiando l’agricoltura e, in alcuni casi, anche le infrastrutture. Per tutte queste ragioni, sono spesso nel mirino degli studi di conservazione, ad esempio per cercare di capire se e come è possibile effettuarne l’eradicazione, ma anche per valutare quali siano gli elementi che più influenzano il successo di una specie in un territorio che non è il suo, così da stabilire quali siano le strategie migliori da attuare per limitare le invasioni biologiche. Ricordate le carpe asiatiche nei grandi laghi americani?

Ora, uno studio appena pubblicato su Nature suggerisce come siano soprattutto le caratteristiche del territorio, e in particolare l’idoneità climatica, a determinare, più di altri elementi come il numero d’individui introdotti, il successo della diffusione delle specie aliene.

Il modello degli uccelli per studiare i fattori del successo

Il nuovo studio è firmato da un team internazionale di ricercatori, che ha utilizzato gli uccelli come modello di studio per analizzare i fattori che influenzano il successo di una specie aliena in un territorio. In particolare, sono stati presi in considerazione 4.346 eventi d’invasione avvenuti a livello globale che hanno coinvolto oltre 700 specie di uccelli. Tra gli esempi più noti dello stabilirsi di specie aliene invasive, vi sono l’oca canadese (Branta canadensis), introdotta in Europa nel XVII secolo; il parrocchetto dal collare (Psittacula krameri), nativo dell’Asia e dell’Africa centrale e oggi diffuso sia in Europa che in Australia, dove è stato catalogato come “rischio estremo” per le specie native; la maina comune (Acridotheres tristis), nativa del subcontinente indiano e ora diffusasi in diversi Paesi (tra cui Israele, Hawaii, Sudafrica, Australia), dove causa danni alle coltivazioni, oltre a poter trasmettere acari che causano dermatiti e asma agli esseri umani.

«Gli studi precedenti si sono solitamente concentrati sulle caratteristiche della specie, o sul numero d’individui introdotti, oppure hanno analizzato determinati aspetti dell’area in cui si sono stabiliti questi animali», spiega Tim Blackburn, co-autore dello studio e professore alla University College London, in un comunicato. «Tuttavia, è molto difficile capire come questi diversi fattori agiscano insieme; il nostro è il primo studio a esplorare tutti gli elementi dell’introduzione delle specie aliene per capire quale ha maggior rilevanza nel determinarne il successo, su scala globale e per interi gruppi di specie».

Dai risultati di questa analisi, emerge che è soprattutto l’ambiente dove la specie viene introdotta a determinarne il successo: le specie aliene di uccelli proliferano soprattutto laddove trovano condizioni simili al loro habitat nativo, e in luoghi poco soggetti a eventi estremi come grandi nubifragi (che mettono a rischio tanto la specie aliena quanto quelle native). Inoltre, il successo sembra essere maggiore nelle zone in cui già altre specie aliene sono prosperate, un elemento che può determinare la formazione di hotspot di uccelli alloctoni. «La preoccupazione è che specie aliene precedentemente insediatesi possano aprire la strada a nuove specie aliene, creando una sorta di “meltdown invasivo”», commenta Blakburn.

Migliorare i controlli

La diffusione delle specie aliene è dovuta all’attività antropica: lo spostamento di specie animali o vegetali dal loro areale nativo può essere volontario, come nel caso della fauna esotica tenuta come domestica (di cui OggiScienza ha parlato qui) oppure negli animali introdotti a scopo venatorio o di pesca sportiva. In altri casi, il trasferimento può essere del tutto involontario, come avviene nel caso delle specie trasportate dalle acque di zavorra delle imbarcazioni o negli aerei cargo. I loro effetti sull’ambiente possono essere svariati: le specie invasive, oltre a determinare l’estinzione delle specie autoctone, per effetti diretti (ad esempio di predazione) o indiretti (consumo di risorse e competizione per il territorio), possono modificare l’habitat o danneggiare le coltivazioni.

Le capre, ad esempio, sono causa di danni al suolo e alla vegetazione, oltre a poter competere con la fauna nativa per l’uso delle risorse. Ancora, le specie aliene possono fare da vettori per agenti patogeni che trasmissibili agli esseri umani o ad altre specie animali o vegetali.

Secondo il sito dedicato alle specie aliene invasive realizzato da ISPRA, in Europa il numero di specie esotiche è cresciuto del 76% negli ultimi trent’anni, favorito dall’incremento del commercio e del turismo. «Sappiamo che le specie aliene sono il principale motore delle estinzioni recenti di piante e animali. È quindi chiara e urgente la necessità di migliorare le misure di biosicurezza per prevenire o mitigare l’impatto delle invasioni future e proteggere le specie native a rischio», commenta David Redding,primo autore dello studio e ricercatore alla University College London.

«Sono necessari piani di gestione concordati a livello internazionale per monitorare l’ingresso di animali nei luoghi critici, come i porti, e prestare un’attenzione molto maggiore alle specie introdotte volontariamente in una determinata area», aggiunge Blackburn.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.