La ricerca che ascolta la voce dei torrenti
Nuovi algoritmi traducono il rumore prodotto dai torrenti in informazioni sul tipo di materiale solido che trasportano. Un prezioso strumento di monitoraggio, che potrebbe darci alcuni minuti di preavviso sugli eventi pericolosi.
Chi ama le passeggiate in montagna avrà sicuramente avuto modo, almeno una volta, di camminare lungo il corso di un torrente, anche se per pochi tratti. Il suono melodioso che produce, quasi magnetico, aiuta a svuotare la mente dai pensieri, ma i corsi d’acqua, specie dopo precipitazioni abbondanti e improvvise, diventano portatori di pericoli per chi sta a valle, materializzati sotto forma di massi e materiale detritico. Velio Coviello, ricercatore presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie della Libera Università di Bolzano, ha illustrato due degli studi in corso presso la sua università, volti a ridurre i rischi per chi vive nelle valli alpine. Per ascoltare i dettagli sulle due ricerche in corso, vi consigliamo di visionare il video a questo link.
Perché è importante studiare il comportamento dei torrenti?
Con il cambiamento climatico in atto i ghiacciai alpini si stanno ritirando, come la gran parte dei ghiacciai montani a livello globale, e con questo ritiro ci sono una serie di versanti e aree detritiche che rimangono esposti agli agenti atmosferici, quando prima erano protetti dal ghiacciaio o mantenuti stabili dal permafrost, che a sua volta si sta ritirando a quote più alte. Tutto questo materiale detritico diventa una potenziale area sorgente di sedimento che con la pioggia, l’erosione e l’attività dei torrenti può essere mobilizzato verso valle.
Lo scenario delle prossime decine di anni è che vaste aree di alta montagna subiranno un cambiamento geomorfologico molto importante: i ghiacciai – come quello della val di Solda – progressivamente scompariranno e al posto del ghiaccio che contribuisce a mantenere stabile il materiale detritico non ci sarà più niente. In caso di precipitazioni intense, o di grossi temporali estivi durante un’ondata di calore, questo materiale potrebbe essere mobilizzato e portato verso valle. Siamo di fronte a uno scenario di cambiamento molto rapido e drammatico – sulle Alpi la maggior parte dei ghiacciai scomparirà nel giro di pochi anni e ci aspettiamo un aumento degli eventi estremi in termini di precipitazioni e ondate di calore – per questo stiamo studiando i possibili sviluppi di questa situazione.
Come mai la scelta dei geofoni per ascoltare questi suoni?
Questi strumenti sono sostanzialmente dei sismometri in miniatura, grandi pochi centimetri, che hanno il vantaggio di essere economici – nel caso di danneggiamenti si possono sostituire senza troppa perdita economica – e in più sono sensori passivi, quindi non hanno bisogno di alimentazione per funzionare. Un geofono sostanzialmente è un sensore che attraverso il movimento genera un segnale elettrico che possiamo registrare. All’interno ci sono una massa con carica magnetica e una bobina che si muovono solidalmente con il terreno nel punto in cui viene installato: questo sistema oscillante si muove sempre più veloce al crescere della vibrazione prodotta dal torrente – o della sorgente che stiamo misurando – e genera un campo elettromagnetico. Il segnale viene poi rilevato da un acquisitore. I geofoni hanno un ulteriore grande vantaggio: possono essere installati anche a distanza del torrente perché ne rilevano indirettamente l’attività.
In che senso si può dire che ascoltate la “voce” dei torrenti?
Utilizziamo dei sensori per rilevare – auscultare, potremmo dire – il rumore dei torrenti che può variare in una banda molto ampia. Chi ha avuto l’occasione di andare in montagna vicino a un torrente durante la stagione estiva avrà presente il rumore lieve dell’acqua che scorre e muove alcuni sassolini nel letto. Quello è il primo rumore che ascoltiamo, il suono dei sassi che si muovono trasportati dalla corrente – il trasporto solido, in gergo scientifico -.
Il trasporto solido naturalmente può crescere d’intensità al crescere della portata liquida del torrente, e questo implica un aumento del volume della “voce” del torrente, ma cambia anche il suo timbro, perché si iniziano a muovere anche sassi più grandi che producono suoni diversi. In più, i torrenti possono produrre processi estremi come quello della colata detritica. Una colata detritica che si muove in un torrente produce sostanzialmente un rombo, un suono impressionante, perché si tratta di blocchi di dimensioni metriche che si muovono a velocità di alcuni metri al secondo impattando contro le sponde e contro il letto. Perciò utilizziamo alcuni sensori per caratterizzare e quindi riconoscere che tipo di processo sta avvenendo nei torrenti.
Cosa si intende per colata detritica e perché può essere un rischio per la popolazione?
Definiamo le colate detritiche come un processo intermedio tra una frana e una piena fluviale. Avvengono in bacini montani caratterizzati da un canale principale, lungo il quale si propaga la piena di un torrente montano in grado di trasportare anche materiale molto grossolano, ovvero blocchi di roccia di dimensione metrica. Una caratteristica importante di questi processi è che hanno velocità alte – alcuni metri al secondo – rispetto a una frana classica, che si muove lentamente lungo un versante. Inoltre, le colate detritiche possono propagarsi su distanze molto grandi, anche di alcuni chilometri.
Parliamo di ondate concentrate di acqua e detriti che si incanalano nel torrente e all’ingresso nel fondovalle possono creare dei danni e risultare quindi molto pericolose. Le valli alpine sono altamente antropizzate, ci sono infrastrutture di trasporto, strade, ferrovie e anche insediamenti abitativi potenzialmente esposti, quindi la pericolosità delle colate detritiche è dovuta al fatto che sono processi molto veloci, che trasportano materiale grossolano, vengono attivate da piogge molto intense, tipicamente temporali estivi, quindi sono difficilmente prevedibili.
Possono essere innescate solo dalla pioggia?
Il processo dominante per il loro innesco è la pioggia, soprattutto in ambito alpino. Il materiale sorgente di una colata detritica deriva principalmente dal materiale prodotto dall’erosione di versanti rocciosi montani che si deposita nella parte alta dei bacini e col tempo si accumula, aumenta in volume. Quando ci sono piogge intense e localizzate in queste aree sorgente il materiale si muove più facilmente verso valle. Le colate possono attivarsi anche a causa di frane nella parte alta dei bacini, per fusione molto rapida della neve o dei ghiacciai. Questo è un processo classico ad esempio in ambiente vulcanico: in questo caso le colate detritiche vengono chiamate lahar, possono avvenire a seguito o durante le eruzioni vulcaniche, perché appunto in tempi brevissimi si fonde una quantità molto grande di ghiaccio o di neve. Però nelle alpi europee tipicamente il processo dominante è la pioggia, i temporali estivi.
Il bacino del Gadria è un’area molto instabile dal punto di vista geologico: le pareti hanno pendenza elevata e questo causa continui crolli di materiale che si accumula nei canali e che, in caso di pioggia, diventa ancora più instabile. Per questo rappresenta un perfetto esempio da studiare e monitorare. Il progetto Earflow, cofinanziato dal Ministero degli Esteri italiano, ha permesso di approfondire ulteriormente la collaborazione con i colleghi messicani dell’Università nazionale autonoma del Messico che svolgono attività analoghe lungo i vulcani attivi messicani.
Il monitoraggio è ancora in atto o è terminato?
Il monitoraggio al Gadria, che è questo bacino di studio, una sorta di laboratorio a cielo aperto per noi ricercatori, va avanti grazie al sostegno di vari enti e progetti di ricerca. I primi strumenti sono stati installati nel 2011 e oggi stiamo continuando a raccogliere dati grazie al sostegno dell’Agenzia per la Protezione Civile della Provincia Autonoma di Bolzano e del progetto Sediplan, finanziato dal Fondo europeo di sviluppo regionale. Il Gadria sta diventando, a livello europeo, uno dei siti principali in cui si studiano questi processi.
È in programma il fatto di ampliare il numero di bacini seguiti in questo modo o siamo ancora a una fase di ricerca troppo embrionale?
La ragione del monitoraggio al Gadria è anche quella di sviluppare metodi e testare strumenti per proporre delle soluzioni applicative da impiegare in altri bacini in cui, per esempio, c’è bisogno di proteggere una strada e quindi mettere dei sensori per fare in modo di avere un sistema che automaticamente interrompa il traffico. L’interesse su questa tematica sta emergendo, soprattutto negli ultimi anni, nel corso dei quali è faticosamente iniziato un cambiamento nell’approccio ai rischi naturali. Storicamente si è sempre privilegiato l’approccio “costruiamo un’opera di protezione, costruiamo un muro di contenimento, un argine, per fare in modo che le infrastrutture siano protette”.
Quello che noi proponiamo va nella direzione dell’adattamento ai rischi naturali, nel senso che con un livello di antropizzazione come quello delle valli alpine è sempre più difficile potersi permettere – in termini di costi, spazio e impatto ambientale, – di costruire grandi opere di protezione, vasche di contenimento, argini di protezione e via dicendo… La filosofia che stiamo cercando di promuovere è quella della gestione del pericolo tramite l’utilizzo di sistemi di allerta, che fanno parte delle cosiddette opere di difesa non strutturali. Quindi, non costruire qualcosa per proteggersi da un processo naturale – che rappresenta un pericolo per l’uomo, come la colata detritica – ma fare in modo di diminuire la vulnerabilità delle infrastrutture e delle persone esposte.
A livello europeo si va un po’ in quella direzione, l’interesse verso questo tipo di sistemi sta aumentando e quindi sì, ci aspettiamo che in un futuro prossimo ci siano più siti attrezzati proprio a livello applicativo, con sistemi di allerta.
Questo interesse nasce anche dal fatto che non avete avuto falsi positivi?
L’algoritmo che abbiamo proposto in questo lavoro, appena pubblicato sulla rivista Journal of Geophysical Research – Earth Surface, si basa sul rilevamento delle colate detritiche tramite una rete di sensori. Quello che abbiamo sviluppato è un algoritmo che sia in grado di seguire la colata lungo il suo percorso e quindi riconoscere un fenomeno distinguendolo da un altro. Noi rileviamo la vibrazione prodotta dal passaggio di una colata detritica, e per distinguerla da un altro processo la logica che abbiamo implementato è la seguente: l’algoritmo riconosce una sorgente di vibrazione che si muove da monte verso valle e attiva progressivamente un sensore dopo l’altro, mantenendo la vibrazione sopra a una determinata soglia di intensità per un tempo di alcuni minuti (le colate detritiche durano almeno 20-30 minuti con varie ondate successive).
Questo ci consente di riconoscere il fenomeno, di identificare la sua durata e di identificare le varie ondate. Si tratta di un altro punto molto importante: le colate si propagano a ondate successive, arriva un primo fronte di massi, ma dietro questo fronte ne possono arrivare altri dopo alcuni minuti. Dal punto di vista della gestione del rischio è molto importante rilevare l’arrivo di ondate successive, perché una situazione tipica che purtroppo si è verificata varie volte è che arriva una colata detritica, viene effettuata una segnalazione e quindi sul posto arrivano le squadre di intervento per verificare i danni ed eventualmente intervenire, e dopo alcuni minuti o ore arriva un altro fronte, che può impattare sui soccorritori. Per questo è fondamentale riconoscere tutto il processo.
Più o meno quanto preavviso riuscite ad avere prima dell’arrivo a valle della colata?
Con questo sistema ragioniamo su tempi di allerta di pochi minuti, perché rileviamo il processo quando è già in corso, quindi quando la colata sta già scendendo lungo il torrente interessato. Sostanzialmente sistemi di questo tipo possono essere impiegati per chiudere le infrastrutture di attraversamento, quindi strade e ferrovie che intercettano il canale più a valle. Per quanto riguarda l’eventuale evacuazione di centri abitati, tempi così piccoli non sono sufficienti, perché ovviamente ci sono dei tempi di reazione molto più lunghi. Il lavoro sulla preparazione e sull’informazione della popolazione può sicuramente aiutare, perché se tu sai che c’è un sistema d’allerta sei conscio del pericolo a cui sei esposto e sai esattamente cosa fare nel caso si verifichi un evento.
Tra quanto si può pensare, verosimilmente, di vedere simili sistemi nelle valli soggette a questo tipo di eventi?
Da un punto di vista tecnologico, di soluzioni, algoritmi e ricerca noi e gli altri colleghi che ci lavorano negli altri contesti europei siamo a buon punto, abbiamo sviluppato delle soluzioni che potrebbero essere impiegate – ci vorrà un po’ di tempo per calibrarle – ma a questo punto è più un problema a livello decisionale, politico. Quando c’è un’emergenza, una grande alluvione, dopo arrivano i soldi per la ricostruzione, ma a livello di prevenzione c’è sempre un po’ di carenza. È più una questione di approccio al tema dei rischi naturali, noi proponiamo di prevedere più risorse per tutto ciò che è prevenzione e non limitarsi a reperire sempre i fondi in emergenza per gli interventi di ricostruzione post-evento.
Naturalmente anche questo è importante, i luoghi vanno risistemati, perché la gente ci vive, però se si facesse più prevenzione l’impatto sarebbe inferiore.
E per saperne di più, un video sulla ricerca sulla “voce” dei torrenti
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