Invertebrati, sentinelle per lo stato di salute dei torrenti glaciali
Il ritiro dei ghiacciai sta modificando in modo paragonabile gli habitat d'alta quota di Europa, Stati Uniti e Nuova Zelanda. Le specie più adattate al freddo si spingono verso l'alto e diventano più rare, con la conseguente perdita di biodiversità e di funzioni ecosistemiche.
AMBIENTE – Con il ritiro dei ghiacciai che li alimentano, gli ambienti legati ai torrenti glaciali stanno cambiando e insieme a loro le specie che li abitano. Accade in modo simile in Europa, America e Nuova Zelanda, spiega un nuovo studio su Nature Ecology and Evolution, dove gli invertebrati adattati alle acque più fredde risalgono verso l’alta quota “inseguendo” il ghiaccio che arretra e vengono sostituiti gradualmente da altri, che colonizzano territori non più così gelidi. Quali saranno le conseguenze per la biodiversità degli invertebrati? Come cambieranno le reti trofiche dei fiumi, al cui apice ci sono pesci, uccelli e umani, o le loro funzioni ecosistemiche come la capacità di autodepurazione e diluizione degli inquinanti?
In ciascuno degli ambienti studiati gli scienziati hanno individuato specie sentinella per il cambiamento: si tratta di invertebrati criali, animali che si sono adattati per vivere negli ambienti glaciali grazie a strategie molecolari come la produzione di zuccheri, polioli e proteine antigelo che abbassano il punto di congelamento dei fluidi corporei – agendo in modo simile all’antigelo che aggiungiamo al radiatore dell’auto durante l’inverno – e impediscono la formazione di cristalli di ghiaccio che, rompendo le membrane delle cellule, le porterebbero alla morte.
Se si trovano in un torrente glaciale, queste specie sono indicatrici delle sue condizioni di buona salute, ancor più se sono abbondanti, e nei torrenti del Trentino di sentinelle ce ne sono quattro. Appartengono tutte al genere Diamesa: D. steinboecki, D. latitarsis, D. goetghebueri e D. zernyi, ditteri acquatici noti come “moscerini che non pungono” e soli colonizzatori delle gelide e turbolente acque di fusione glaciale, fino agli oltre 3000 metri di quota. Le loro larve sono in grado di sopravvivere a temperature vicine allo zero e di ibernarsi durante i mesi più freddi senza subire danni al momento del disgelo.
“Le troviamo solo dove la copertura glaciale è superiore al 30% del bacino e la temperatura dell’acqua massima rimane sotto i 6 gradi centigradi”, spiega a OggiScienza Valeria Lencioni, idrobiologa del MUSE di Trento che da vent’anni studia la fauna degli ambienti glaciali sul campo e in laboratorio, co-autrice dello studio. “Viceversa, non trovarle ci deve mettere in allarme”. Nei siti dove queste condizioni non sono più soddisfatte, una o più di queste specie sono destinate a scomparire. La nuova ricerca mostra che la prima a subire questo destino in Trentino e nel resto delle Alpi sarà Diamesa steinboecki, il moscerino del ghiaccio, nonostante i suoi affascinanti adattamenti: come i pesci che vivono in Antartide, le larve hanno membrane cellulari ricche di acidi grassi insaturi come gli omega 3, che le rendono molto fluide e contribuiscono a evitare si rompano con le basse temperature.
“D. steinboecki non è più presente in tratti del torrente glaciale Conca sul Carè Alto nel Parco Naturale Adamello Brenta, dove abbondava una ventina d’anni fa”, spiega Lencioni. “Le attuali proiezioni suggeriscono che solo il 4-18% della superficie di ghiaccio di oggi rimarrà nelle Alpi entro la fine del XXI secolo, con la scomparsa nei prossimi decenni di tutti i piccoli ghiacciai, quelli con una superficie inferiore al chilometro quadrato”, che rappresentano l’80% dei ghiacciai alpini. “Anche per questo le Alpi italiane sono un caso studio fondamentale per la costruzione di modelli di previsioni, con i loro ghiacciai destinati a scomparire in pochi decenni”.
Grazie a questo studio internazionale lo stesso tipo di conseguenze è stato documentato in Europa ma anche negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda. “Indipendentemente dalla latitudine si osservano gli stessi cambiamenti nelle condizioni ambientali”, conferma Lencioni. “Se siamo in una fase iniziale di ritiro, quando il ghiacciaio è ancora esteso, la portata del torrente aumenta, la temperatura dell’acqua rimane bassa e il cibo è scarso. Quando invece il ghiacciaio è ridotto a pochi ettari il torrente glaciale si trasforma, diventa limpido, le sue acque si scaldano e il cibo è più abbondante. Di conseguenza cambiano le comunità di insetti che lo popolano con la scomparsa, quando il ghiacciaio è ormai ‘terminale’, delle specie che si sono specializzate a vivere solo in questi ambienti estremi”.
Non possiamo ancora sapere con certezza come cambieranno questi habitat d’alta quota al diminuire progressivo della glacialità, perché non tutto è prevedibile sulla base delle variabili ambientali, conferma Lencioni: sappiamo qual è la composizione della comunità in un habitat integro, ma non conosciamo con certezza quali specie sostituiranno le criali. “Sappiamo però che saranno onnivore e non faranno la metamorfosi. Solo studi ecologici a medio-lungo termine potranno aiutarci a comprendere gli effetti del riscaldamento globale sulla biodiversità e sul paesaggio alpino”.
Le conoscenze di oggi, messe a disposizione dai ricercatori, sono strumenti utili alle amministrazioni che si trovano a dover definire linee guida per la gestione dei rischi naturali e della biodiversità. “È impensabile aspettare che si completino ricerche di decenni, stiamo vivendo un’emergenza ambientale, sociale ed economica a cui bisogna far fronte. Il ritiro dei ghiacciai sta comportando infatti la perdita di ‘beni’ indispensabili per l’umanità tra cui una minor disponibilità di acqua per l’irrigazione, per la produzione di energia idroelettrica e per uso potabile. Non va dimenticato che milioni di persone nel mondo dipendono per la loro sopravvivenza dall’acqua fornita dai ghiacciai, specialmente in Sud America e in Asia”.
Montagne, ghiacciai e fiumi non hanno confini politici e gli effetti dei cambiamenti climatici su biodiversità e habitat glaciali sono simili in regioni diverse: proprio per questo sarà fondamentale elaborare piani gestionali con una visione transfrontaliera e condividendo le misure di mitigazione, dice Lencioni. È l’approccio già in uso dall’euroregione composta da Tirolo, Alto Adige e Trentino, che ha riunito molti esperti tra ecologi, chimici, geologi e ingegneri ambientali, oltre ai politici, per trovare misure comuni da intraprendere. “Gli eventi climatici estremi sono sempre più frequenti e il rischio di alluvioni sempre più elevato. Rinaturalizzare le fasce riparie dei fiumi, ridurre le infrastrutture, rimboschire i pendii in alta quota e mantenere una rete di aree umide tra loro connesse contribuirebbe ad aumentare la capacità di ritenzione dei suoli, con un effetto tampone”.
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