I contaminanti emergenti negli ecosistemi montani
RACE-TN è un progetto di ricerca biennale per valutare l'impatto dei contaminanti emergenti sui fiumi trentini, dal livello di inquinamento fino agli effetti sulla fauna
SPECIALE FEBBRAIO – Quanto pesa l’impatto antropico sugli ambienti di montagna, dove aria pura e rigogliosa vegetazione fanno sembrare l’inquinamento cittadino un lontano ricordo? È quanto cerca di capire RACE-TN (“Valutazione del rischio ambientale dei contaminanti emergenti nei fiumi trentini: effetti sulla vita selvatica e sull’uomo”), un progetto di ricerca biennale finanziato dalla Fondazione Caritro di Trento. Il protagonista è il torrente Noce, studiato in varie stagioni e nei tratti più o meno impattati da quei contaminanti che la nostra presenza porta inevitabilmente a riversarsi nell’ambiente.
“Il torrente Noce è stato scelto perché attraversa due valli alpine, la val di Sole e la Val di Non, entrambe interessate da diversi tipi di impatti antropici”, spiega a OggiScienza Valeria Lencioni, responsabile scientifica del progetto. “Ci sono coltivazioni di mele e uva mentre nelle aree più elevate del bacino c’è un forte impatto turistico, specialmente sciistico nel periodo invernale. Due siti di campionamento in alta montagna li abbiamo scelti proprio per valutare l’impatto di questo turismo: gran parte della ricerca finora è stata fatta a fondovalle, perché si pensa sempre che in montagna tutto funzioni bene e che l’inquinamento non ci sia. Ma non è così. Un terzo sito a valle, vicino a Trento, ci permetterà invece di mettere in evidenza diversi impatti come quello di una popolazione residente numerosa tutto l’anno, ma anche degli scarichi dei depuratori, degli ospedali e molto altro”.
Uno dei siti d’alta montagna si trova a 2600 metri sul Rio Presena, pochi metri a valle della fonte del ghiacciaio Presena. Nonostante sia lontano dalle attività umane è interessato dall’arrivo di molti inquinanti a lunga distanza: vi sono state trovate tracce dei pesticidi in uso nei vigneti e meleti delle valli, ma anche erbicidi molto usati nella pianura padana che hanno migrato fino al ghiacciaio, come la famosa terbutilazina e alcuni contaminanti emergenti (EC) come la tonalide, una delle fragranze più usate nei prodotti per l’igiene come shampoo e ammorbidenti. Tra i “soliti noti” gli scienziati hanno monitorato nei vari siti anche altre molecole associate alla presenza turistica come l’antinfiammatorio ibuprofene, l’antibiotico trimetoprim, il diuretico furosemide ma anche il triclocarban, un antibatterico che probabilmente vedremo sempre di più nei prodotti di uso quotidiano, dopo la messa al bando del triclosan nell’UE.
Il secondo sito, al Passo del Tonale (1700 metri), ha permesso di confrontare la situazione a monte e a valle dello scarico di un depuratore. “Si tratta di un caso studio interessante perché abbiamo potuto isolare l’impatto del turismo invernale. Soprattutto tra Natale e Carnevale l’area coinvolta è molto abitata e si arriva a diverse migliaia di persone. Poi i numeri crollano in primavera e autunno. Ci aspettavamo di trovare una differenza anche nel livello dei contaminanti emergenti negli scarichi, ad esempio i principi attivi presenti nei farmaci da banco o gli additivi alimentari, come il sucralosio”, spiega Lencioni. “Ed è proprio quello che abbiamo trovato”.
Da bevande dietetiche e pesticidi fino all’ecosistema
Il sucralosio è uno zucchero sintetico, molto utilizzato negli Stati Uniti e che qui ha sostituito l’aspartame. È in tutte le bevande dedicate agli sportivi per reintegrare i sali, ma anche in quelle dietetiche, perché noi lo percepiamo dolce ma il nostro corpo non lo assimila. “Ci è capitato di trovarlo anche in un collutorio, sta ‘invadendo’ tutti i prodotti che usiamo e sembra non abbia problemi di tossicità, perché ha superato tutti i test a livello europeo e le aziende che lo adottano non sono tenute a fare ulteriori indagini. Rimangono però delle perplessità, perché sembra in grado di alterare il comportamento degli animali, in particolare i macro-invertebrati. Ci sono evidenze che modifichi il comportamento dei gamberi di fiume, che cambiano il loro regime alimentare dopo l’esposizione”, spiega a OggiScienza Sara Villa dell’Università Bicocca di Milano, responsabile del pacchetto di lavoro di RACE-TN sull’inquinamento chimico.
Nei corsi d’acqua di sucralosio ne arriva parecchio. “Immaginiamo un life-cycle assessment in piccolo: bevi il tuo prodotto dietetico e il corpo non assimila il sucralosio perché non lo riconosce come zucchero, dunque viene escreto tale e quale. Così arriva nei depuratori, dove anche i microrganismi non lo abbattono. Il 90% di quel sucralosio viene alla fine rilasciato nei torrenti”.
Nel periodo post-vacanziero i ricercatori di RACE-TN hanno rilevato picchi di sucralosio molto importanti. Confrontando i campioni d’acqua del torrente Noce prelevati a fine giugno e a febbraio, le concentrazioni a valle del depuratore del Tonale raddoppiano: meno di 0,3 microgrammi per litro in giugno, ma oltre 0,6 in alta stagione. “C’è un doppio problema, perché entra in gioco il sotto-dimensionamento del depuratore. O viene alimentato continuamente o i microrganismi muoiono, dunque viene tarato su una quantità di popolazione media. Se c’è un surplus, ad esempio perché piove molto o perché ci sono tanti turisti, questo viene scaricato senza essere depurato”.
Il processo primario su cui si basa un depuratore è una comunità di micro-organismi, che non sono ‘progettati’ per abbattere o degradare le sostanze xenobiotiche come i contaminanti emergenti che noi immettiamo nell’ambiente. “Se sei un microrganismo e ti arriva addosso una buona dose di antibiotico, non è difficile immaginare che lavorerai con meno efficacia”, conferma Villa. “Un altro possibile risvolto del progetto, infatti, sarebbe attrezzare i sistemi di depurazione affinché non siano basati solo sull’attività biologica ma su operazioni più sofisticate, depurazioni a livello terziario o quaternario”.
Villa e il suo team hanno lavorato soprattutto in alta quota, sul ghiacciaio del Presena, dove l’inquinamento riguarda in particolare pesticidi, insetticidi, fungicidi ed erbicidi applicati sulle colture del Nord Italia, dalla pianura padana fino alle valli alpine. Queste sostanze non rimangono dove vengono applicate ma viaggiano attraverso trasporto atmosferico. “Abbiamo individuato soprattutto terbutilazina ed S-metolachlor, mentre la contaminazione da insetticidi è dominata dal clorpirifos, molto usato su meleti e vigneti, colture tipiche delle valli alpine, in particolare a Trento e Bolzano. Nonostante tutte le attenzioni degli agricoltori questo composto arriva a contaminare i ghiacciai: in passato ne sono state individuate tracce negli ambienti artici, dunque la capacità di viaggiare del clorpirifos non ci sorprende più”.
In mancanza di linee guida europee specifiche per le misurazioni in aree remote, i ricercatori hanno campionato seguendo l’approccio standard “che si usa per autorizzare la messa sul mercato di un pesticida”, dice Villa. “Il vantaggio è che protegge le acque superficiali vicino a un campo trattato, ma ci sono dubbi se queste linee guida funzionino o meno anche sul trasporto dei contaminanti a lunga distanza”. I livelli dei singoli contaminanti misurati sono risultati al di sotto della soglia di rischio, ma “rimangono aperte le problematiche relative alle miscele. Quando il ghiacciaio si scioglie, rilascia tutto quanto”.
La terbutilazina è oggetto di grande interesse in Italia. Su certe colture e in alcune aree l’utilizzo è stato bandito; in Piemonte ad esempio è molto restrittivo, perché a causa della percolazione dalle colture di mais nelle falde acquifere sono state trovate concentrazioni molto elevate. “Finora non avevamo evidenze che potesse arrivare anche sulle sommità alpine via atmosfera, ma adesso sappiamo che inquina l’acqua di falda ma raggiunge anche le alte quote. Anche per il clorpirifos c’è già molta cautela. Se autorizzati a usarlo, bisogna mettere in atto vari accorgimenti per ridurre il drift, la volatilizzazione all’esterno del campo. Serve una strumentazione tecnica particolare, come ugelli che modificano la dimensione delle particelle”, conferma Villa.
“Speriamo che una maggior conoscenza su questi contaminanti emergenti porti a un aumento della sensibilità e metta in essere delle strategie che riducano il loro impatto sull’ambiente. Non sui campi, dove serve che le molecole siano efficaci, ma sugli ecosistemi che li circondano”.
Fauna alpina e contaminanti
Per monitorare lo stato di salute della fauna di questi ambenti, i ricercatori hanno prima di tutto confrontato la comunità di animali attesa -ovvero quella che ci si aspetta sia presente in base alle temperature, alla portata di acqua, alla quota…- con quella effettivamente presente.
“La situazione non sembra alterata in generale, anche al ghiacciaio abbiamo trovato quello che ci aspettavamo. Confrontando invece la stessa specie -un efemerottero, Baetis alpinus– in due popolazioni diverse, quella a monte e quella a valle dello scarico, emerge che un inquinamento c’è nonostante distino soli 50 metri l’una dall’altra”, spiega Lencioni. “A valle gli organismi sono soggetti a uno stress fisiologico, sono più sofferenti se vogliamo, come se stessero resistendo e non vivendo. I test per valutare il danno al DNA nelle cellule e a livello basale hanno mostrato valori più elevati a valle. Inoltre queste molecole agiscono sul comportamento degli animali, ne alterano la mobilità”.
A valle del depuratore i numeri cambiano un po’, ma nessuna specie sparisce del tutto. Tuttavia gli organismi sono più stressati, dunque vulnerabili al riscaldamento globale e potrebbero reagire con meno efficienza a cambiamenti nella portata del torrente.
Le comunità alpine sono spesso molto semplici e capire se possano subire effetti gravi dall’esposizione ai contaminanti emergenti è uno degli obiettivi di progetto. Le specie target come B. alpinus (un raschiatore che si nutre di vegetali e detriti), ma anche alcuni chironomidi, sono state scelte in base all’abbondanza relativa. “Per fare i test eco-tossicologici e di geno-tossicità servono moltissime larve, non potremmo condurli su animali rari. Abbiamo scelto le specie rappresentate meglio e appartenenti a gruppi funzionali diversi in base all’alimentazione, ad esempio erbivori tagliuzzatori e detritivori, per capire se la modalità di assunzione del cibo influenzi l’esposizione ai contaminanti”, spiega Lencioni.
Esistono molecole che precipitano e altre molto solubili, che nell’ambiente si disperdono rapidamente, ma anche molecole lipofile che si accumulano nei tessuti degli animali e di conseguenza nella catena trofica. “Facendo test anche sui predatori, come plecotteri e tricotteri, abbiamo a disposizione i dati per diversi livelli trofici della catena. Il bioaccumulo dei contaminanti si può vedere su ognuno di questi livelli”.
Se trovare tracce dell’inquinamento non ha sorpreso gli scienziati, qualcos’altro lo ha fatto. Gli insetti chironomidi, che solitamente vivono in acque molto pulite, con scarso inquinamento organico ed elevata ossigenazione, sono risultati molto resistenti ai contaminanti. “Per portare alla morte un individuo andrebbe aumentata di milioni di volte la concentrazione di principio attivo presente nell’ambiente”, dice Lencioni. “Ci ha stupito molto: sappiamo che sono dotati di heat shock proteins, proteine che li rendono resistenti al freddo, ed è possibile -anche se è solo un’ipotesi- che conferiscano loro resistenza anche allo stress chimico”. Sono risultati ben tolleranti addirittura al clorpirifos, aggiunge Villa, “noto per la sua azione neurotossica”.
Uno degli obiettivi è stabilire delle concentrazioni limite per i contaminanti emergenti, sui quali secondo gli scienziati in futuro ci sarà molto lavoro da fare. “Un gruppo del progetto RACE TN ha appena iniziato a fare studi sulle linee cellulari umane, per vedere come reagiscono all’esposizione in laboratorio. Attraverso il bioaccumulo nella catena trofica, tutti questi inquinanti arrivano fino a noi”, spiega Lencioni. “Nel pesce che peschiamo e mangiamo, la concentrazione potrebbe essere più elevata di quella che misuriamo in acqua”.
Un altro dei gruppi del progetto si è concentrato sugli effetti dei contaminanti emergenti sugli anfibi, in particolare le popolazioni di rane di specie come la rana alpina (Rana temporaria). Il loro obiettivo è in primis valutare l’impatto del chitridio, un fungo già conosciuto come minaccia per gli anfibi di tutto il pianeta, che che in 30 anni ha provocato il crollo o l’estinzione di più di 200 specie. “Sul lungo termine il gruppo di ricerca vorrebbe capire, partendo dalle uova, se l’esposizione ai contaminanti sia in grado di aumentare l’infezione nelle rane, rendendole più sensibili all’infezione”, conclude Lencioni.
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