Nuova Zelanda, servirebbero 50 milioni di anni per ripristinare la biodiversità
C'è chi crede che, lasciando la natura in pace, questa si riprenderebbe in poco tempo. Ma è una visione a dir poco ottimista, soprattutto per gli ambienti più particolari.
Rimasta isolata per milioni di anni, la fauna della Nuova Zelanda è nota per le sue caratteristiche uniche. Purtroppo, è nota anche per il numero di specie a rischio o perdute a causa dell’impatto umano. L’avifauna, in particolare è andata incontro a una delle più grandi ondate di estinzione documentate e molte specie sono oggi a rischio. Sebbene sia relativamente ben documentato il numero di specie perdute o minacciate, è ancora poco noto l’impatto umano in termini macroevolutivi. In altre parole, quanto tempo sarebbe necessario per avere di nuovo il numero di specie perduto a causa dell’attività umana? Risponde uno studio appena pubblicato su Current Biology: 50 milioni di anni.
Effetti macro-evolutivi
Il kakapo (Strigops habroptila), il grande pappagallo notturno, e l’emblematico kiwi (Apteryx) sono solo due esempi dell’unicità ecologica e tassonomica della Nuova Zelanda. Ma sono proprio le loro caratteristiche uniche, come la frequente incapacità di volare e le grosse dimensioni, ad aver reso gli uccelli neozelandesi particolarmente suscettibili alla presenza umana. Caccia, alterazione dell’habitat e introduzione di specie aliene hanno fatto sì che, nonostante gli sforzi di conservazione degli ultimi cinquant’anni, il 16,7% dell’avifauna sia oggi classificata come minacciata, e il 25% sia a rischio (ad esempio perché la popolazione è in declino). Gli scienziati hanno spesso analizzato e quantificato l’impatto antropico su questi animali, ma finora non erano stati condotti studi sugli effetti di quest’impatto in termini macro-evolutivi e a lungo termine.
Per capire quanto profondamente gli esseri umani abbiano perturbato lo stato naturale e quanto tempo sarebbe necessario per ripristinare il numero di specie presenti prima dell’arrivo dei colonizzatori (i maori sono giunti in Nuova Zelanda circa 700 anni fa, gli europei 200-300 ani fa), un gruppo di ricercatori ha usato un metodo chiamato DAISIE (Dynamic Assembly of Islands throught Speciation, Immigration and Exctinction). Compilando un dataset filogenetico aggiornato, comprendente anche specie estinte, i ricercatori hanno usato DAISIE per stimare i tassi naturali di speciazione, estinzione e colonizzazione, e capire dunque come e quanto crescano le specie.
Hanno poi condotto delle simulazioni con diversi scenari di estinzione dovuta alla presenza antropica per capire quanto tempo sarebbe necessario per tornare a un determinato numero di specie. In particolare, hanno indagato quanto tempo occorrerebbe per tornare il numero di specie presente prima dell’arrivo degli esseri umani in Nuova Zelanda, quanto per tornare al numero di specie attuale se si estinguessero quelle che a oggi sono minacciate e se si estinguessero anche quelle prossime alla minaccia.
I dati ottenuti indicano che il tempo richiesto in ciascuno di questo scenari sarebbe davvero molto lungo: 50 milioni di anni per ripristinare la biodiversità persa negli ultimi 700 anni e fino a 10 milioni di anni per recuperare quella attuale se si estinguessero gli uccelli oggi considerati prossimi alla minaccia (ad esempio perché le popolazioni sono in declino o perché la loro abbondanza dipende strettamente dagli sforzi di conservazione).
Decisioni per il futuro
Gli autori scrivono che, considerando il numero di specie introdotte in Nuova Zelanda (37, da 16 diverse famiglie), si potrebbe affermare che la biodiversità abbia già nuovamente raggiunto i livelli di quella dell’epoca precedente all’arrivo degli esseri umani. Questo ragionamento non tiene però in considerazione l’enorme pressione cui sono sottoposti gli uccelli nativi e il fatto che non tutte le specie introdotte hanno lo stesso valore per la conservazione dei processi naturali. «C’è chi crede che se si lascia la natura in pace, questa recupererà rapidamente. Ma la realtà è che, almeno in Nuova Zelanda, alla natura sarebbero necessari milioni di anni per riprendersi dall’impatto umano – e forse non ci riuscirebbe mai del tutto», commenta in un comunicato Luis Valente, ricercatore del Museum für Naturkunde di Berlino e primo autore dello studio.
Lo studio appena pubblicato fornisce un’indicazione importante su quanto sia profondo l’impatto umano sulla biodiversità. Ora, i ricercatori vogliono estendere l’analisi ad altre isole, per individuare quelle in cui i tempi di recupero sono più lunghi, così di poter individuare le priorità per gli sforzi di conservazione, ad esempio per l’eradicazione delle specie invasive (per le quali la Nuova Zelanda, come OggiScienza ha ricordato qui, si è già impegnata). Ma, scrivono ancora gli autori, indipendentemente dalla strategia che individueremo, le scelte di oggi avranno importanti implicazioni per il futuro. Come conclude Valente: «Le decisioni che prendiamo oggi, in termini di conservazione, avranno ripercussioni nei millenni a venire».
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