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Social network facilitatori per il traffico di opere d’arte: il caso della Siria

I gruppi Facebook sono una delle piattaforme per far incontrare domanda e offerta. La network analysis e lo studio delle trattative ha messo in evidenza il modus operandi di mediatori legati all'ISIS e Al Qaeda

Nel film del 2014, George Clooney, Matt Damon e gli altri Monuments Men cercano di recuperare le opere d’arte razziate in mezza Europa dai nazisti. La vicenda del pugno di eroici curatori ed esperti d’arte si basa su di una storia vera, ma nella realtà la task force contava oltre 400 membri, non tutti americani, ed è rimasta in attività fino al 1951. Purtroppo una parte del patrimonio artistico finito nelle mani del Terzo Reich non è mai stata ritrovata. Ed è così per ogni guerra, a qualsiasi latitudine. Oggi, però, gli strumenti per mettere sul mercato nero le opere d’arte sono più potenti e duttili che mai. La dimostrazione più recente viene dal primo report dell’ATHAR project pubblicato quest’estate, che ha individuato e analizzato un network internazionale di venditori di artefatti artistici via Facebook.

ATHAR è un acronimo che sta per Antiquities Trafficking and Heritage Anthropology Research, un progetto di ricerca che si è concentrato sull’uso di Internet e del web per il traffico illegale di opere d’arte. A tirare le fila del gruppo di lavoro sono Amr Al-Azm, un archeologo siriano che ha anche ricoperto il ruolo di direttore generale del dipartimento di archeologia e dei musei dell’Università di Damasco, e Katie Paul, un’antropologa che da anni di occupa di saccheggio e contrabbando in Medio Oriente. Gli interessi dei due leader spiegano il focus della ricerca su di un’area del mondo la guerra siriana che si sta trascinando – con una intensità variabile – dal 2011 sta giocando un ruolo fondamentale.

Network e dati

Il report, intitolato Facebook’s Black Market in Antiquities: Trafficking, Terrorism, and War Crimes, ha analizzato 95 gruppi (più o meno aperti) in lingua araba gestiti da 488 amministratori. I membri sono dislocati in tutto il mondo e superano abbondantemene il milione, con una stima che arriverebbe addirittura a sfiorare i 2 milioni. Solo una piccola parte di loro è effettivamente un compratore o un venditore attivo. Per questo motivo, per stimare quanti siano le persone coinvolte direttamente le traffico, i ricercatori hanno approfondito l’analisi di quattro gruppi basati in Siria. Sono così riusciti a stimare in una percentuale compresa tra l’1,6 e il 9,3 la parte attiva coinvolta nelle compravendite. Se estendiamo la percentuale stimata a tutti i gruppi consideati, ci rendiamo conto che le persone coinvolte sono comunque migliaia.

L’analisi del network ha permesso di mostrare l’alto livello di interconnessione tra i membri dei 95 gruppi del campione (Immagine: ATHAR)

Lo studio ha individuato il modus operandi tipico di questi gruppi. Un potenziale acquirente scrive un post con una dimostrazione di interesse e nel giro di qualche giorno un altro membro del gruppo pubblica foto e video di oggetti recentemente entranti in possesso di quelli che il report definisce “gruppi terroristici“. Questo aspetto ha fatto sollevare qualche perplessità ad alcuni commentatori. In effetti, il traffico di opere è un modo ben documentato di finanziare l’impresa bellica, ma è stato portato avanti praticamente da tutte le parti coinvolte nel conflitto, e non solamente dai gruppi vicini all’ISIS, che comunque sono confermati come coinvolti in questo tipo di traffico.

Non è tutto oro quello che luccica…

Bisogna quindi leggere con qualche precausione il dato legato ai “terroristi”, ma l’analisi di ATHAR Project ha altri pregi. Il primo punto è che, confermando quello che già sapevamo sul traffico illecito di opere grazie ad altri progetti simili, fornisce elementi quantitativi e grande dettaglio. Per esempio, è emerso che la maggior parte dei manufatti sono comperati da persone che si trovano nel vicino Oriente. E che spesso i mediatori “recuperano” gli oggetti solo dopo la richiesta di un potenziale acquirente. Un altro elemento che emerge dal report è che una parte dei manufatti che vengono messi in vendita sono falsi (e ciò nonostante arrivano a costituire una fetta tra il 30 e il 50% del finanziamento dell’ISIS in Siria).

Un’immagine di un oggetto messo in vendita in un gruppo Facebook il 26 settembre 2018. Si tratta di un volume rilegato in pelle del XIV-XV secolo, ma probabilmente falso: spesso i reperti in commercio sono falsi (Immagine: ATHAR Project).

Il sito americano Hyperallergic, che si occupa di arte e segue attentamente il contrabbando delle opere siriane da tempo, ha anche sottolineato un’altra attenzione che bisogna avere nel valutare questo tipo di analisi. La questione di chi finanzia questi studi non è ininfluente, come si può capire anche solo dalla definizione di “terrorista” che si sceglie di adottare. ATHAR è un progetto che si basa sul lavoro volontario dei propri due coautori. Ma non è il caso di altri studi. Hyperallergic cita, per esempio, l’American Schools of Oriental Research Cultural Heritage Initiatives, che si occupa prevelentemente di stimare i danni al patrimonio culturale a causa dei conflitti armati. Dal 2014 al 2017 ha ricevuto finanziamenti dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, cioè la struttura del governo coordina la politica estera. Non è esattamente un soggetto neutro nei confronti del Medio Oriente e dell’Africa Orientale e gli interessi politici potrebbero avere un certa influenza sul lavoro dei suoi progetti.

Una misura per un dibattito futuro

Indipendentemente dalle preacauzioni con cui si devono leggere questi studi (ma non è il caso di praticamente tutti gli studi?), i loro risultati sono preziosi per dare una misura del depredamento del patrimonio artistico mondiale causato dalle parti in guerra. E si tratta di un tema che si ricollega anche a un altro grande dibattito sull’opere d’arte che si è sviluppato negli ultimi anni, quello sull’opportunità della restituzione ai paesi colonizzati del proprio patrimonio. In fin dei conti, anche in quel caso a generare il trafugamento – non necessariamente di nascosto – sono quasi sempre stati gli eserciti e le milizie.


Leggi anche: A caccia dell’arte rubata in Europa

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Marco Boscolo
Science writer, datajournalist, music lover e divoratore di libri e fumetti datajournalism.it