SALUTE

Sostanze psichedeliche e meditazione: un cocktail terapeutico per i disturbi dell’umore

Che cosa succede nel cervello quando combiniamo un’esperienza di meditazione a una sostanza allucinogena? Fino a dove possiamo spingere la mente per aumentare la consapevolezza di noi stessi?

“È uno dei momenti che ha cambiato tutto nella mia vita. Ho sentito questo fumo nero che usciva dal mio corpo e mi sono sentito in pace ed euforico riguardo al futuro”. Così si apre l’ultimo episodio de La mente svelata, la docuserie originale di Netflix narrata da Emma Stone. Cosa succede nel nostro cervello quando dormiamo, ricordiamo, meditiamo e quando assumiamo sostanze psichedeliche? Octavian Mihai apre il quinto episodio con la sua esperienza: dopo essere guarito da un linfoma di Hodgkin al terzo stadio, non riesce a liberarsi dalla preoccupazione che il cancro possa tornare.

Il suo medico decide di inserirlo in uno studio clinico di pazienti oncologici per valutare se questa paura debilitante della morte possa essere trattata con sostanze psichedeliche. “Una parte di me era curiosa, perché pensavo che mi sarei sballato. Ma ho anche pensato: cosa ho da perdere, le cose non possono andare peggio”. Dopo qualche seduta di terapia, i medici hanno iniziato a dare a Octavian pillole di psilocibina, il principio attivo dei funghi allucinogeni. Da quel momento qualcosa in lui cambia e dopo il cancro Octavian guarisce anche dalla paura.

Le neuroscienze lo dicono e lo sperimentano da qualche anno: in alcuni casi, l’utilizzo in clinica di sostanze psichedeliche è efficace per il trattamento dei disturbi dell’umore, come l’ansia e la depressione. Recentemente un gruppo di ricercatori dell’Università di Zurigo ha pubblicato su Nature Scientific Reports l’effetto combinato della meditazione mindfulness e dell’assunzione di psilocibina, la sostanza psichedelica con cui è stata trattata la paura di Octavian Mihai. In particolare, la pratica della meditazione sembra amplificare gli effetti positivi a lungo termine della sostanza allucinogena.

Mindfulness: di cosa si tratta

La mindfulness è una disciplina che aiuta a fronteggiare stati di stress, ansia, sofferenza e affaticamento attraverso una serie di pratiche di meditazione combinate all’Hatha Yoga. Si può immaginare come una sorta di adattamento terapeutico dei concetti del Buddismo Zen. A mettere in piedi questa combinazione di filosofia e pratiche fu Jon Kabat-Zinn, biologo molecolare e fondatore della Stress Reduction Clinic e del Center for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society alla University of Massachusetts Medical School.

Inizialmente il protocollo ideato da Kabat-Zinn, il Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR), è ideato per pazienti con dolore cronico o per malati terminali. Il successo di queste pratiche porta la mindfulness a essere considerata uno strumento clinico utile anche nei percorsi psicologici di terapia cognitivo-comportamentale: insegnare ai pazienti una nuova relazione con i pensieri e le emozioni aiuta a evitare gli automatismi e i circoli viziosi, che possono indurre ricadute, per esempio, depressive.

Secondo Kabat-Zinn, questo tipo di meditazione dovrebbe portare alla “consapevolezza che emerge dal prestare attenzione di proposito, nel momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento”. I pazienti dovrebbero arrivare a ridurre i propri automatismi e a liberarsi dagli atteggiamenti giudicanti che limitano la possibilità di accogliere la vita con curiosità, apertura e flessibilità e che possono essere causa di un malessere fisico e psicologico.

La valutazione scientifica di queste pratiche meditative arriva negli ultimi anni, quando le neuroscienze verificano se e cosa accade nel cervello durante la meditazione. Alcuni studi hanno dimostrato un aumento della connettività all’interno delle reti coinvolte nell’attenzione e tra queste e le regioni prefrontali mediali, soprattutto in coloro che praticano da molti anni. Altri studi hanno evidenziato la diversa anatomia cerebrale dei soggetti che meditano: l’aumento dello spessore dei lobi frontali e della corteccia prefrontale mediale potrebbe influire positivamente sull’elaborazione neurale, comportando una maggiore efficienza nella gestione delle informazioni, nella memoria e nel processo decisionale.

Il collegamento con le sostanze psichedeliche

Le sostanze psichedeliche come l’LSD o la psilocibina inducono esperienze molto simili a quelle della meditazione mindfulness: la percezione di perdita dei confini tra sé e il mondo circostante e la riduzione dell’eccessiva attenzione su se stessi possono favorire la diminuzione dello stress, la presenza di sentimenti di felicità duratura e l’aumento dell’empatia e dell’altruismo. Atteggiamenti opposti a questi, come i pensieri e le emozioni negative ricorrenti e l’alterata interazione sociale, sono invece caratteristici dei disturbi dell’umore, tipo la depressione.

I ricercatori dell’Università di Zurigo hanno combinato i due elementi e hanno valutato la loro potenziale sinergia. Per farlo, hanno somministrato una dose di psilocibina e un placebo a un gruppo di 40 esperti di meditazione durante un ritiro di 5 giorni. Sulla base di misure psicometriche e neurocognitive, gli scienziati hanno potuto constatare che la meditazione mindfulness aumenta gli effetti positivi della psilocibina, contrastando le possibili risposte disforiche dell’esperienza psichedelica.

Il follow-up nei quattro mesi successivi ha evidenziato che gli esperti di meditazione a cui era stata somministrata la psilocibina hanno mostrato cambiamenti positivi e duraturi nel funzionamento psicosociale, una migliore accettazione di sé e una maggiore empatia, rispetto al gruppo di controllo a cui era stato somministrato il placebo. “L’intensità dell’esperienza indotta dalla combinazione tra psilocibina e meditazione ha giocato un ruolo chiave per questi cambiamenti duraturi” sostiene Franz Vollenweider, professore di psichiatria all’Università di Zurigo e direttore di questo studio. Il riscontro cerebrale di questi cambiamenti era già stato evidenziato dallo stesso gruppo di ricerca in uno studio precedente: indagini condotte con la risonanza magnetica avevano rilevato che questo tipo di esperienze riescono a indurre cambiamenti duraturi delle connessioni neurali nel cervello, più specificamente nelle regioni che si attivano quando pensiamo a noi stessi.

“Questo filone di ricerca vuole far luce sull’interazione tra fattori farmacologici e non farmacologici in particolari condizioni della mente”, conclude Franz Vollenweider. “L’allenamento della consapevolezza aumenta gli effetti positivi di una singola dose di psilocibina e questo può aumentare l’empatia e ridurre permanentemente la centralità dell’io. Si possono aprire nuove strade terapeutiche, per esempio per il trattamento della depressione, disturbo che è spesso accompagnato da deficit sociali e da un’eccessiva concentrazione su di sé.”


Leggi anche: Gli effetti della meditazione sul cervello

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Giulia Rocco
Pensa e produce oggetti multimediali per il giornalismo e l’editoria. L’hanno definita “sperimentatrice seriale”.