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Alcol, droghe e sperimentazione senza animali

Le sostanze d'abuso vengono ancora studiate testandole sugli animali, anche in Italia. Ma uno studio condotto da tre ricercatrici italiane parla di un futuro concreto del tutto diverso.

Vi raccontiamo due studi, più uno (che ne vale mille).
Una delle pubblicazioni parla di di topi ubriachi e colesterolo. L’altro di una pillola che salva il fegato dopo le sbronze.
Il terzo di 80 vite risparmiate.

Il primo studio, una ricerca tutta italiana, ottiene risultati che confermano come sia la quantità che i modelli di consumo di alcol siano entrambi fondamentali per definire l’impatto delle sostanze alcoliche sul rischio cardiovascolare. Per la ricerca i topi utilizzati hanno dovuto assumere da piccole a grandissime quantità di alcol.
Il secondo, pubblicato su Nature nel 2018, è stato condotto dalla University of California. In quel caso i ricercatori hanno scoperto che iniettando nanocapsule contenenti un enzima disintossicante per il fegato in topi che avevano assunto quantità notevoli di alcolici era possibile ridurne gli effetti tossici sul fegato, aiutandolo a metabolizzare l’alcol e “inventando” così una sorta di “pillola dopo-sbronza”.

Questi due studi (ma ce ne sarebbero decine da citare) fanno parte di quella categoria di ricerche che più facilmente smuove le coscienze nei confronti degli animali. Non possiamo non chiederci che senso abbia costringere animali in cattività e testare su di loro quelle che, per noi, sono sostanze non necessarie alla vita, anzi chiaramente dannose (e lo sappiamo già), come alcol, fumo e droghe.

La campagna “Sacrificati per il nostro bene”

Secondo i dati più recenti del Ministero della Salute, nel 2017 sono stati usati a fini sperimentali 580.073 animali. Per lo più topi e ratti, ma non solo. Rispetto all’anno precedente è aumentato il numero dei cani, che ha raggiunto i 486 individui, di conigli, furetti, maiali, bovini, pesci, cefalopodi e scimmie (586). Il 46% di questi ha subito procedure dolorose.
Su questi numeri si fonda l’ultima campagna proposta dalla LAV – “Sacrificati per il nostro Bere” – che sta muovendo centinaia di persone in questi giorni nelle piazze italiane e che è dedicata espressamente alla sperimentazione animale sulle sostanze d’abuso.

“In Italia – si legge nella recente nota alla stampa della Campagna LAV – le sostanze d’abuso vengono ancora testate su topi e ratti, e quasi sempre senza anestesia, mentre per gli xenotrapianti si ricorre a suini e primati. All’estero, inoltre, gli studi sulle droghe sono condotti anche sulle scimmie (macachi, uistitì e babbuini). Con la nostra mobilitazione chiediamo il divieto definitivo di questi test dolorosi e scientificamente infondati: un’importante battaglia, basata sul rispetto del Decreto legislativo n. 26/2014. Questo Decreto, infatti, prevede che dal 1 gennaio 2017 sia totalmente proibito l’uso di animali per effettuare i test sulle sostanze d’abuso: un passo in avanti che rischia di essere vanificato qualora il suo contenuto venisse ulteriormente disatteso dal Governo italiano”.

Nel nostro paese (e non solo) il percorso che conduce alla validazione di uno studio, un risultato, una terapia o un farmaco destinato all’essere umano, passa, per legge, attraverso la sperimentazione sugli animali. Per arrivare a ottenere l’ok definitivo si va di studio in studio, con molteplici riprove e varianti, partendo dalla ricerca di base fino al paziente.
 A oggi non c’è modo di evitare il modello animale nell’iter di ricerca, ma se potessimo ridurre drasticamente il numero di soggetti utilizzati per una buona parte del processo, attraverso l’uso di tecniche innovative, sarebbe già una vittoria. L’attuale legge italiana che regolamenta l’impiego di animali a fini scientifici (D.Lgs del 2014) è incentrata sulla necessità urgente di ricercare “metodi alternativi”. E per quanto riguarda la legislazione europea, questa si fonda sul principio delle 3 R (Russell, Burch, The principles of humane experimental technique, 1959): rimpiazzare, ridurre e rifinire. Il ricercatore dovrebbe cercare, con il maggiore sforzo possibile, di rimpiazzare il ricorso al modello animale con un modello alternativo, di ridurre il numero di individui utilizzati in un certo protocollo sperimentale e, infine, di migliorare le condizioni sperimentali alle quali sono sottoposti gli animali.

Ed eccoci, quindi, all’ultimo dei tre studi da raccontare.
Da circa un anno la LAV collabora con il Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Pavia – Laboratorio di analisi chimiche tossicologiche di Nutraceutici ed Alimenti, con un progetto che ha l’intento di studiare gli effetti dell’etanolo sul sistema gastrointestinale senza utilizzare animali, direttamente testando su cellule umane, e con l’intenzione di dimostrare come il metodo ideato dalle ricercatrici del Dipartimento possa rappresentare un’alternativa all’attuale ricerca con utilizzo di animali sulle sostanze d’abuso.

Lo studio innovativo di Pavia, in pratica

Adele Papetti, Raffaella Colombo e Mayra Paolillo hanno recentemente messo a punto un nuovo modello cellulare multi organo avanzato, che va considerato come un’evoluzione dei comuni modelli in vitro. Il loro studio (che sarà utilizzato come base per la ricerca sull’etanolo attualmente ancora in corso), anche al di là delle campagne mediatiche, è decisamente interessante, a dir poco. Qualcosa di così grande che ricorda molto da vicino l’idea di “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”.

Da circa due anni il team di ricercatrici sta cercando di ottimizzare l’utilizzo di bioreattori per simulare i sistemi fisiologici in alternativa ai classici modelli in vitro e all’utilizzo di modelli animali. Questi sistemi, spiega Raffaella Colombo, “sono costituiti da camere sviluppate in modo da consentire la coltura di cellule (umane), per simulare le barriere fisiologiche e mimare in modo riproducibile le condizioni dinamiche che si verificano in vivo. Grazie a una pompa peristaltica è possibile far circolare i fluidi simil-fisiologici, valutando composti di diversa natura: farmaci, prodotti naturali e nutraceutici (molecole bioattive estratte da alimenti)”.

La nuova opzione offre l’opportunità di collegare diversi scomparti, consentendo di studiare profili cinetici e metabolici di diverse sostanze e, secondo quanto emerso in studi preliminari, potrebbe davvero rivelarsi una valida alternativa agli attuali modelli di simulazione di digestione in vitro/ex vivo.
 Il metodo può riprodurre la digestione a livello gastrointestinale per studiare attività benefica o tossica, assorbimento e metabolizzazione di diverse molecole.

Il gruppo ha messo a punto il primo sistema gastrointestinale umano in vitro dinamico mai realizzato senza l’utilizzo di animali e con cellule umane, servendosi della strumentazione progettata da un’azienda italiana, nata nel 2014 come spin-off del centro ricerca “E. Piaggio” dell’Università di Pisa.

“Il sistema permette di usare qualsiasi tipo di cellula o di tessuto – precisa Raffaella Colombo – che possono essere piastrati all’interno di bioreattori, in cui si può far ‘flussare’ una determinata sostanza.
 La particolarità del nostro modello è che si tratta di un sistema dinamico e non statico, come i test tradizionali in vitro. Un sistema che, quindi, riproduce in modo più simile possibile la fisiologia del processo digestivo”. Le tre ricercatrici hanno, così, testato una specifica molecola presente in molti alimenti, come il pane, il caffè o i biscotti: il metilgliossale (MGO).
“Abbiamo ipotizzato un pasto, un intake quotidiano e poi uno settimanale con una certa dose di questa sostanza e abbiamo testato il nostro sistema dinamico confrontandolo con un protocollo statico di digestione in vitro normalmente utilizzato a livello internazionale. E, considerate le potenzialità, l’idea è quella di completare il sistema digestivo con l’aggiunta del bioreattore simulante il fegato”.

Il nuovo sistema rimpiazza quello con l’uso di animali?

“In questo momento non lo possiamo dire – chiarisce la ricercatrice –, il nostro modello multiorgano costituisce un primo passo, ma va validato: per dimostrare che il sistema è uguale o migliore degli attuali test che utilizzano gli animali, va riprodotto un certo numero di volte, con molecole diverse e confrontato con il modello animale. Onestamente oggi possiamo sperare che in futuro si possa cambiare il modo di fare ricerca, ma si tratta di un cammino lungo anni”. Come la prima orma sulla Luna.

Perché questo studio conta così tanto

1. Le cellule usate sono umane, quindi scientificamente le migliori per ottenere risultati utili per l’essere umano.

2. Dalla ricerca di base fino ai trial clinici per una nuova molecola passano anni e, uno dei passaggi obbligati è costituito dalla fase pre-clinica, che utilizza modelli animali. “Ma, in ambito universitario, compito della ricerca di base è anche studiare alternative al modello animale – conclude la dottoressa Colombo – e ci auspichiamo che il nostro sistema possa diventarlo”.

3. Se le ricercatrici avessero testato molecole di MGO in modo tradizionale lo studio avrebbe richiesto almeno 80 animali. Con il loro innovativo sistema multiorgano sono state risparmiate 80 vite.


Leggi anche: Il tradimento dei numeri – David J. Hand

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Sara Stulle
Libera professionista dal 2000, sono scrittrice, copywriter, esperta di scrittura per i social media, content manager e giornalista. Seriamente. Progettista grafica, meno seriamente, e progettista di allestimenti per esposizioni, solo se un po' sopra le righe. Scrivo sempre. Scrivo di tutto. Amo la scrittura di mente aperta. Pratico il refuso come stile di vita (ma solo nel tempo libero). Oggi, insieme a mio marito, gestisco Sblab, il nostro strambo studio di comunicazione, progettazione architettonica e visual design. Vivo felicemente con Beppe, otto gatti, due cani, quattro tartarughe, due conigli e la gallina Moira.