SALUTE

Contro l’epidemia da oppiacei servono meno prescrizioni e più prevenzione

In Italia per esempio non utilizziamo in maniera impropria gli oppiacei ma altri farmaci più comuni come i FANS. Ne parliamo con gli esperti

Di emergenza oppiodi si parla da qualche anno, in particolare negli Stati Uniti, in relazione alla prescrizione eccessiva di questi farmaci per il dolore non canceroso. Siamo di fatto davanti a un’epidemia di morti da overdose in corso, con un picco di 60 mila decessi nel 2016, imputata prevalentemente alla diffusione di farmaci usati per controllare il dolore come fentanile, ossicodone e idrocodone. La domanda cruciale è come fare per arrestare questo fenomeno.

Un articolo pubblicato su The Lancet presenta i risultati di un modello matematico legato a un approccio farmacologico. Secondo gli autori, aumentare l’uso di Antagonisti degli Oppioidi (OAT) come il naltrexone, arrivando a una copertura del 40%, prolungando la durata del trattamento fino a 2 anni e instaurando questi trattamenti anche nelle carceri si eviterebbe, rispetto a uno scenario senza OAT, percentuali dal 7% al 25% di morti (a seconda del paese considerato), dal 34% al 57% di decessi per overdose e dal 25% al 56% di morti per HIV in 20 anni.

Differenze tra Italia e Stati Uniti

Un bell’investimento economico in termini di spesa farmaceutica. Soprattutto considerato che esistono delle alternative all’uso degli oppiacei in caso di dolore non canceroso. Basterebbe insomma smettere di prescrivere inappropriatamente oppiacei. “In Italia, per esempio, non siamo di fronte ad alcuna epidemia di questo tipo semplicemente perché noi non utilizziamo in maniera impropria gli oppiacei per curare le sindromi dolorose, ma altri farmaci più comuni come i FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei), o l’aspirina, che non creano alcuna forma di dipendenza” racconta a OggiScienza Claudio Leonardi, Presidente della Societá Italiana Patologie da Dipendenza – S.I.Pa.D.. Negli Stati Uniti gli oppiacei vengono usati in diverse condizioni dolorose, spesso banali e non solo in caso di cure palliative per pazienti in stato terminale. “È una catena viziosa: gli autori dell’articolo studiano l’impatto di un trattamento farmacologico per lenire gli effetti di un altro trattamento farmacologico che a sua volta non dovrebbe essere usato. È come chiudere la stalla dopo che sono usciti i buoi! Il problema è che gli Stati Uniti si sono resi conto del problema troppo tardi e non è facile scalfire le errate abitudini prescrittive dei medici”.

Aziende farmaceutiche e medici

C’è inoltre il fatto che, negli ultimi decenni, le grandi aziende farmaceutiche statunitensi non sono state sempre trasparenti sui potenziali effetti dannosi di una sovraprescrizione di oppiacei. Solo lo scorso agosto lo stato dell’Oklahoma ha condannato Johnson & Johnson a pagare allo stato 572 milioni di dollari di risarcimento per aver promosso “campagne di marketing false, fuorvianti e pericolose” (OggiScienza ne palava qui).

“I medici dovrebbero essere piú appropriati nel prescrivere oppiacei per curare il dolore nei loro pazienti, e gli Stati Uniti dovrebbero dotarsi di un sistema sanitario più inclusivo, in modo che anche i carcerati possano usufruire di prassi degli stessi trattamenti a cui avrebbero diritto se non fossero in prigione, come avviene in Italia, dove ogni carcere è dotato di un servizio per terapia del dolore” continua Leonardi, che dirige l’area sanitaria del Carcere di Rebibbia, a Roma.

“Le linee guida dell’OMS ci sarebbero, ma risalgono al 2009, e sarebbe necessario aggiornarle” aggiunge Roberta Pacifici, Direttore del Centro Nazionale Dipendenze e Doping.

Vale la pena sottolineare, inoltre, che gli autori dell’articolo dichiarano diversi interessi. Uno di loro ha ricevuto borse di studio per scienze scolastiche iniziate da investigatori per studi su farmaci oppioidi in Australia da Indivior, Mundipharma e Seqirus. Un altro ha ricevuto borse di studio legate a Indivior, azienda farmaceutica che si occupa di trattamento da dipendenza da oppioidi. Un altro è consulente o ha ricevuto borse di ricerca da AbbVie, Cepheid, Gilead Sciences e Merck / Merck Sharp & Dohme. Un altro ancora ha ricevuto commissioni personali da Gilead Sciences, AbbVie e Merck Sharp & Dohme, mentre un altro autore ha ricevuto supporto non finanziario da Gilead Sciences. Solo per citarne alcuni.

Per dovere di cronaca va precisato che gli autori dell’articolo suggeriscono anche la necessità per gli Stati Uniti di cambiare sguardo, per riuscire a spezzare il circolo vizioso che dal disagio porta all’abuso, che porta al disagio sociale. “La criminalizzazione dell’uso e della dipendenza da oppioidi provoca danni considerevoli evitabili a individui, società ed economie” scrivono.

“Rispetto al problema dei derivati del Fentanil, prodotti illegalmente e immessi sul mercato clandestino la situazione in Italia sembra diversa. Secondo il Sistema Nazionale di Allerta Precoce, continua Pacifici, in Italia non possiamo escludere un problema legato al fentanil e derivati, ma riguarda la loro assunzione illegale come droga non come farmaco prescritto dal medico per curare una dipendenza. In ogni modo anche da noi il fenomeno di overdose o intossicazioni da fentanili potrebbe essere sottostimato, poiché non in tutti i casi di overdose viene richiesto l’esame tossicologico, e i sintomi dell’overdose da fentanili sono del tutto simili a quelli dell’overdose da eroina.”


Leggi anche: Oppioidi, in Oklahoma la prima sentenza contro Johnson e Johnson

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.