L’Amazzonia rischia di diventare una savana?
Nuovi studi mostrano che la deforestazione può trasformare la foresta pluviale in un ambiente arido, minacciando il clima e la biodiversità
Non c’è pace per l’Amazzonia. Nelle scorse settimane due importanti ricerche hanno rilanciato l’allarme per il destino della più grande foresta pluviale del pianeta, che svolge un ruolo essenziale nella regolazione del clima e custodisce la maggiore concentrazione di specie viventi.
Il primo studio, condotto dall’agenzia spaziale brasiliana INPE, si basa sulle informazioni raccolte dal programma di monitoraggio satellitare Prodes e mostra che nei 12 mesi tra agosto 2018 e luglio 2019, a causa del disboscamento e degli incendi (ne abbiamo parlato qui), sono andati perduti quasi 10mila chilometri quadrati di foresta, quasi il 30% in più rispetto all’anno precedente. Non accadeva niente del genere dal 2008 e ha così trovato conferma il timore di una drastica ripresa della deforestazione in Amazzonia. Secondo le associazioni ambientaliste è il frutto di un indebolimento nelle politiche di protezione ambientale voluto dal governo di Jair Bolsonaro per favorire le lobby degli agricoltori e degli allevatori, le attività minerarie e le speculazioni sul valore dei terreni.
La seconda ricerca, se possibile, è ancora più preoccupante. È stata realizzata dalla NASA e dimostra che, negli ultimi 20 anni, le attività umane hanno causato una essiccazione dell’atmosfera amazzonica, rendendo questo prezioso ecosistema più vulnerabile alla siccità e agli incendi. I ricercatori del Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California, hanno passato al setaccio i dati terrestri e satellitari sulla foresta pluviale scoprendo che negli ultimi due decenni l’atmosfera è diventata meno umida, e in una misura assai maggiore di quel che ci si potrebbe aspettare dalla variabilità climatica naturale. Secondo quanto dichiarato da Armineh Barkhordarian, primo firmatario dello studio pubblicato in ottobre su Scientific Reports, il fenomeno è di origine antropica e dovuto circa in egual misura agli elevati livelli di gas serra presenti in atmosfera e agli incendi appiccati per disboscare il suolo.
L’effetto domino dell’essiccazione
L’essiccazione dell’atmosfera può avere effetti drammatici sull’ecosistema amazzonico. Secondo gli scienziati della NASA, se questo fenomeno dovesse prolungarsi, la foresta potrebbe non essere più in grado di sostenersi. La vegetazione ha infatti bisogno di acqua in abbondanza sia per la fotosintesi, sia per proteggersi dal calore. Le radici delle piante assorbono l’acqua presente nel terreno, che viene rilasciata in forma di vapore dalla traspirazione delle foglie, raffreddando l’ambiente come farebbe un gigantesco condizionatore. Il vapore forma quindi le nuvole sopra la foresta, e la pioggia restituisce l’acqua al suolo chiudendo il ciclo idrologico. Le foreste pluviali generano fino all’80% della loro pioggia, soprattutto durante la stagione secca e altre ricerche avevano già evidenziato come la deforestazione possa ridurre la piovosità che tiene in vita la foresta.
La deforestazione può infatti innescare un circolo vizioso: riducendo la copertura vegetale, la traspirazione delle piante diminuisce e l’atmosfera diventa più secca. Con meno piogge, il suolo inaridisce e cresce il rischio di incendi più estesi e devastanti. Quando la foresta brucia, inoltre, rilascia nell’atmosfera particelle di black carbon, una fuliggine di colore scuro che assorbe la luce solare e riscalda ulteriormente l’ambiente. Oltre una certa soglia, la foresta rischia di non riuscire più a produrre abbastanza pioggia per sopravvivere.
Lo studio della NASA mostra che gli effetti dell’essicazione sono già evidenti nella regione sud-orientale dell’Amazzonia, la più interessata dalla deforestazione e dall’espansione agricola, dove la stagione secca può prolungarsi anche per quattro o cinque mesi. Ma negli ultimi due decenni sono stati registrati episodi di siccità persino nell’Amazzonia nord-occidentale, un’area molto umida che di norma non ha una stagione secca.
Il punto di non ritorno
Diversi scienziati hanno espresso il timore che l’Amazzonia si stia avvicinando a un pericoloso “punto di non ritorno” oltre il quale l’ecosistema potrebbe collassare. Alcuni modelli prevedono che, superata una certa percentuale di deforestazione, gran parte della foresta pluviale possa trasformarsi in un ambiente arido, simile a una savana.
Il biologo Thomas Lovejoy, considerato un’autorità mondiale nel campo della biodiversità, ha stimato che la soglia da non superare si colloca tra il 20 e il 25% di deforestazione rispetto al 1970. Secondo il governo brasiliano, oggi siamo al 17,3%, ma alcuni esperti considerano questo valore sottostimato. «Il punto di non ritorno è vicino, molto vicino», ha confidato Lovejoy in un’intervista rilasciata al New York Times.
Allo stato attuale delle conoscenze, tuttavia, nessuno può dire con certezza cosa accadrà davvero, né quando. La comunità scientifica è ancora divisa sull’ipotesi del “punto di non ritorno” e sulle sue conseguenze, ma gli esperti sono invece d’accordo nel ritenere le attività umane una minaccia concreta all’integrità dell’Amazzonia.
Assalto alla foresta
Spesso l’opera di sfruttamento comincia con la costruzione di strade che attraversano la foresta, facilitando l’accesso ai taglialegna e ai garimpeiros, i minatori illegali che amplificano l’azione devastatrice dell’industria mineraria. In Brasile la gran parte del legname è tagliato illegalmente, mentre non è raro che le attività estrattive, legali o di frodo, finiscano per avvelenare i corsi d’acqua. Le strade sono inoltre all’origine di una crescente frammentazione degli habitat che mette in pericolo molte specie animali, oltre a esporre a un maggior rischio di siccità e incendi anche le zone che prima erano più interne e protette dalla foresta.
In molti casi la deforestazione è praticata per fare spazio agli allevamenti di bestiame o alle monocolture di soia destinate alla produzione di mangimi animali per il mercato estero. Ma gli alberi possono essere bruciati o abbattuti anche solo per speculare sul valore dei terreni, che aumenta di 50-100 volte quando sono disboscati. Infine c’è l’impatto delle grandi dighe, in grado di stravolgere gli ecosistemi d’acqua dolce. Tutto ciò è causa di gravi sofferenze e di una sistematica violazione dei diritti dei popoli indigeni del Brasile, circa 900mila persone che dipendono dalla foresta per vivere.
Come se non bastasse, la deforestazione, gli incendi e l’aumento delle temperature tendono ad alimentarsi a vicenda rischiando di indebolire il ciclo idrogeologico che sostiene la foresta pluviale. Non sorprende perciò che nell’ultimo mezzo secolo un quinto dell’Amazzonia brasiliana sia già scomparso.
Perché non possiamo perdere l’Amazzonia
La foresta pluviale amazzonica è il bioma con la maggiore biodiversità sul pianeta. Si stima che esistano fino a 360 miliardi di alberi, appartenenti ad almeno 16mila specie diverse, oltre a innumerevoli specie animali, forse addirittura milioni. Una ricchezza biologica inestimabile che non possiamo in alcun modo permetterci di perdere.
L’Amazzonia, inoltre, svolge un ruolo cruciale nella regolazione del clima del pianeta. Ogni anno la vegetazione sottrae all’atmosfera miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2), evitando che contribuisca all’effetto serra. Si stima che le piante dell’Amazzonia custodiscano circa 100 miliardi di tonnellate di carbonio, più di sei volte le emissioni annuali di tutte le centrali a carbone del mondo.
Quando però gli alberi bruciano o muoiono, anziché assorbire CO2 la rilasciano nell’atmosfera, alimentando il riscaldamento globale. E come discusso, senza le piante viene meno l’effetto refrigerante del vapor acqueo emesso nella traspirazione, indebolendo così un cruciale sistema di raffreddamento planetario. Basti pensare che ogni giorno la foresta amazzonica pompa nell’atmosfera 20 miliardi di tonnellate di vapore. Senza questo vitale ecosistema, le condizioni climatiche dell’intero pianeta sarebbero sconvolte. Ecco perché talvolta si dice che dal destino dell’Amazzonia dipende il destino del mondo intero.
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Immagine: NASA/JPL-Caltech, NASA Earth Observatory