Non era depressione, ma paura. Però nessuno glielo aveva chiesto
Una storia che ci racconta quanto lavoro bisogna ancora fare per migliorare la comunicazione tra il medico e il paziente.
«Corine ascoltava anche le storie che le raccontavano i familiari, gli amici e i colleghi di lavoro dei pazienti e così si rendeva conto di come il cancro piantasse i suoi spinosi tentacoli in una rete sempre più ampia.»
Ho parlato a lungo con Mariangela, e tornata a casa sono corsa a prendere un libro di Danielle Ofri Cosa dice il malato, cosa sente il medico, che avevo letto un paio di anni fa (ne avevamo parlato qui), e che aveva rivoluzionato il mio punto di vista sul rapporto di comunicazione medico-paziente.
Quello che mi ha raccontato Mariangela a proposito della sua amica T. è una storia come tante: c’è un’anziana sola ma autonoma, solare, tranquilla, che a un certo punto senza una ragione apparente crolla. Nel caso di T. però non c’è il cancro alle porte, non c’è un infarto, nemmeno un lutto. Da un giorno all’altro questa donna che mai era stata al centro di pensieri da parte della sua comunità di riferimento, diventa un punto interrogativo, inizialmente guardato con incredulità.
In meno di una settimana T., che vive sola da sempre, occupandosi della sua casa, del suo giardino, e guidando l’auto non vuole più alzarsi dal letto, rifiuta il cibo, non vuol più vedere l’alba fuori dalla finestra e tiene le serrande abbassate. Dice che vuole morire, a chiunque le si avvicini: le amiche, il medico che la conosce da tempo. Anche quest’ultimo inizialmente, conoscendo T. non si preoccupa più di tanto: pensa che si tratti di un po’ di tristezza dovuta alla solitudine, alimentata dal periodo natalizio, dove magari le telefonate sono state meno di quanto ci si aspettasse.
Tempo tre giorni, T. è ricoverata nel reparto di psichiatria. Quando Mariangela – amica infermiera che la conosce da tempo, anche se più giovane – decide un po’ per caso di andarla a trovare, non si aspetta di trovare T. in posizione fetale, con le mani a coprirle gli occhi, dimenandosi di fronte al personale del reparto, rifiutando il cibo, i farmaci e ripetendo come una cantilena “voglio morire, lasciatemi sola qui a morire”.
Mariangela mi racconta questa scena con gli occhi lucidi. Per quanto sia abituata ad avere a che fare con persone malate, qui è diverso. “Aver a che fare con la morte, seppur nel proprio lavoro quotidiano, non è la stessa cosa. La pulsione di morte è qualcosa che ci destabilizza: abbiamo bisogno di tempo per inquadrarla razionalmente per provare a entrare in sintonia con chi ci sta chiedendo aiuto” mi dice Mariangela.
Il personale medico le chiede chi è, ma senza porre troppe domande
T. è sola, non ha fratelli o sorelle, non ha nipoti o parenti alla lontana con cui ha un rapporto vero. Ha delle amiche coetanee, che si sono accorte subito che qualcosa non andava e hanno attivato il medico e il ricovero. “Vada vada, mi hanno detto, provi lei a farle prendere le terapie, che qua non ce la facciamo più e sono due giorni che non c’è modo di comunicare” continua Mariangela, raccontandomi il primo impatto. “Mi sono venuti gli occhi lucidi a vederla così spaventata, così fragile. Mi ha riconosciuto subito e ho capito che era lucidissima. Mi ha detto Mariangela ciao grazie ma io voglio solo morire. Mi vergogno così tanto di me che non voglio guardarti negli occhi. Per mezz’ora è stata così, rannicchiata a lato su se stessa, con le mani a coprirle gli occhi, mentre io, seduta accanto a lei sul letto, accarezzandole il braccio, con voce calma, pacata, le parlavo, le chiedevo che cosa fosse successo, che cosa si sentisse. Basta poco per capire se una persona che conosci è lucida oppure no, e T. lo era. Era solo terrorizzata.”
Nell’ora e mezza successiva che Mariangela ha trascorso con T., piano piano, con piccole domande sul presente, sul passato, T. ha iniziato a verbalizzare ciò che sentiva nella sua testa da qualche settimana: un’ombra, sempre più pesante, che le impediva di vedere. Vedere, sì: con gli occhi. T. si era convinta che sarebbe diventata cieca. “Non mi operano nemmeno, perché non c’è niente da fare” ripeteva. Nel momento in cui Mariangela inizia ad approfondire con T. questo aspetto della vista, piano piano senza che se ne rendesse conto, la donna inizia a spostare le mani dal volto, a girarsi e a guardare finalmente Mariangela negli occhi. È attenta, vuole capire meglio che cosa intende Mariangela quando le dice che non è possibile che stia diventando cieca.
Pian piano T. racconta la sua storia
Lentamente emerge il nocciolo di tutta la faccenda: una storia profonda di sofferenza vissuta da T. per tutta la vita, legata alla paura della cecità. Piano piano T. racconta a Mariangela che, essendo nata fortemente miope e astigmatica, da bambina (erano gli anni Cinquanta) a scuola è stata sempre considerata poco intelligente perché non sapeva rispondere alle domande della maestra. “Io semplicemente non vedevo alla lavagna, ma mi vergognavo troppo, ero timida, e ho preferito far pensare che fossi stupida. Poi quando questo aspetto è venuto fuori mi dicevano tutti che prima o poi sarei diventata cieca.”
Lo stesso accade quando T. inizia a lavorare in fabbrica: “c’erano dei lavori che non facevo bene perché non vedevo, e chiedevo mi spostassero inventandomi che il lavoro non mi piaceva, ma non era così. Però mi vergognavo, e preferivo che la gente pensasse che ero strana.”
“In realtà parlando con i medici del reparto – racconta Mariangela – mi avevano ben spiegato che T. non stava assolutamente diventando cieca, e non soffriva di alcuna malattia neurodegenerativa, di nessuna forma di demenza. Semplicemente la visita oculistica aveva rilevato un po’ di ulteriore carenza di vista, ma trattabile senza chirurgia.
Il problema è che tutto questo vissuto, che Mariangela sente dalla voce di T. nelle due ore che passa lì seduta con lei in quel letto di ospedale, T. non lo aveva mai raccontato a nessuno all’interno del reparto, né alle sue amiche. Mariangela, dopo aver salutato T. – che nel frattempo si era sollevata seduta, aveva assunto le terapie, e aveva deciso di riprovare quegli occhiali strani che secondo lei la facevano stare male (in realtà solo perché dopo quarant’anni di lenti troppo deboli aveva degli occhiali che le correggevano tutti i problemi di vista).
Mariangela si rende conto che il medico non sa che T. per tutta la vita aveva portato per 12 ore al giorno le lenti a contatto, che lì in reparto per la prima volta non aveva, che non era abituata agli occhiali, e soprattutto che la sua paura più grande da quando era bambina era la possibilità di diventare cieca.
T. voleva morire, lasciarsi andare, perché non aveva senso per lei continuare a vivere senza vedere.
“Ero arrabbiata, lo ammetto. Ho chiesto perché T. non era stata seguita da uno psicologo, perché la ascoltasse, cercando di capire che cosa potesse essere successo, per trovare quel bandolo della matassa che in pochissimi giorni l’aveva fatta crollare. Mi hanno risposto che quello che c’era è andato in pensione da un po’ e al momento non è ancora stato sostituito. E i medici e gli infermieri non avevano chiesto a T. nulla della sua vita, non sapevano nemmeno se fosse mai stata sposata, se avesse mai lavorato”. Quello che i medici vedevano e potevano sapere dalle poche parole di T., era che voleva morire. Per loro il nocciolo clinico era la depressione, mentre ora stanno lavorando molto anche sull’aspetto ansiogeno, a partire dalla comunicazione con T. sulla realtà delle cose a proposito della sua non grave condizione visiva.
Mariangela è stata un tramite fra T., chiusa in se stessa e terribilmente spaventata, che mai avrebbe confidato tutta questa sua storia a un estraneo in camice bianco, e i clinici. “Un tramite graditissimo: il personale era stupefatto dal risultato, e grato di questo aiuto, e mi ha invitato a tornare spesso, ci siamo confrontati sulle mie impressioni, e già il giorno dopo T. appena mi ha vista si è sollevata guardandomi subito negli occhi. L’ho tranquillizzata a lungo sulla questione della vista e ti assicuro che era un’altra donna. Certo, ancora con il cosiddetto Black Dog dell’ansia e della depressione da mandare via, ma ora verrà aiutata in questo processo anche grazie ai farmaci.”
Mi ritornano in mente le storie cliniche raccontate da Danielle Ofri, dove l’ascolto, le domande giuste, l’instaurare una relazione con il paziente, lo ha salvato. Non tutti i pazienti sono uguali. La fragilità sociale rappresenta ancora un gap incommensurabile fra una situazione e l’altra. Sono tornata a casa con una convinzione ancora più ferma del fatto che dobbiamo lavorare ancora tanto, e meglio, nella formazione del personale sanitario sul tema della comunicazione verbale e non verbale fra medico e paziente.
“Mi girai verso la signora Garza e dissi: “È tutto?”. Lei annuì e io le mostrai l’elenco di tutte le sue preoccupazioni. Visto sulla pagina, l’elenco non sembrava così travolgente. Era lungo ma circoscritto. Sembrava affrontabile, per entrambe.”
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