LIBRI – Cosa dice il malato, cosa sente il medico
Migliore comunicazione può significare migliore salute? In libreria l'ultimo libro di Danielle Ofri, che esamina il rapporto - spesso schiavo del tempo - tra paziente e medico
CULTURA – Ci si chiede spesso come sia possibile al giorno d’oggi – quando molte persone possiedono enormi conoscenze mediche rispetto a qualche decennio fa – che ci si rivolga a guaritori e ciarlatani una volta di fronte alla realtà della malattia. Una delle risposte plausibili è che, per quanto ciarlatani, questi individui sono di solito estremamente competenti in un aspetto: quello della comunicazione.
Eppure entrare in risonanza con i propri pazienti è un aspetto che non viene incluso nei percorsi universitari abilitanti alla professione medica, forse perché si tratta di competenze che chiunque può utilizzare.
A questo si unisce il problema del tempo, percepito dai medici come molto frustrante. I medici di base sono costretti a ritmi serrati, fordisti. Bisogna andare subito al problema e focalizzarsi su di esso, come un meccanico che si trova davanti un’auto in avaria e deve capire in un attimo qual è la parte da sostituire per far ripartire l’intero veicolo.
Il chirurgo e io in definitiva le abbiamo detto la stessa cosa, solo in un ordine diverso. Io le ho detto che la ferita si sarebbe probabilmente cicatrizzata in quel momento, ma che avrebbe potuto avere bisogno di un intervento in futuro. Lei semplicemente non ha sentito la seconda parte. Il chirurgo le ha detto che la ferita aveva bisogno di un intervento, e poi in seguito, incalzato da lei, le ha detto che la ferita sarebbe probabilmente guarita, anche se non in un bel modo
Gli studi mostrano che, nella maggior parte dei casi, la discrepanza fra “Cosa dice il malato e cosa sente il medico” – per parafrasare il titolo di questo bellissimo libro di Danielle Ofri (Il Pensiero Scientifico Editore 2018, 296 pagine, 24 €) – è una voragine. Focalizzarsi, soprattutto per il medico di base che spesso si trova davanti un estraneo per la prima volta, è controproducente. Finisce per non soddisfare il paziente nella relazione con il medico, il medico stesso nella comprensione della complessità del paziente e, di nuovo, il paziente che non riceve l’aiuto che cerca.
In uno studio condotto alla Mayo Clinic americana nel 2005, meno della metà dei pazienti dimessi sapeva dire il nome della malattia che aveva avuto. In un altro studio, nel 2010, analizzando coppie di medici e pazienti i ricercatori hanno registrato che il 77% dei medici era convinto che il paziente avesse capito qual era stato il suo problema. Rivolgendo la stessa domanda ai pazienti, a saper rispondere era solo il 50%.
Parlammo ancora un po’, poi decidemmo di concentrarci su tre aspetti diversi: le preoccupazioni economiche, lo stress, e per ultimo la pressione sanguigna
Il vero valore aggiunto di questo libro non sono i numeri, ma le storie. Non il what, il che cosa, ma l’how, il come. Spiegare ai medici che il colloquio con il paziente è lo strumento diagnostico principale, e che una miglior comunicazione porta risultati terapeutici migliori, non basta. Nelle relazioni interpersonali – quale è il rapporto tra medico e paziente – siamo di fronte all’esercizio di un’arte, come suonare il violoncello, racconta la Ofri. Nessuna delle due mani è più importante dell’altra, è l’orecchio che fa la differenza. Si tratta di una complessa danza fra due persone: una che deve risolvere un problema e non ha tempo, l’altra che “intuisce di avere una sola fugace occasione per presentare il suo caso in modo convincente, sia in termini di effettivi minuti a disposizione, sia di legittimità della malattia”. Statisticamente, il medico interrompe la narrazione del paziente ogni 12 secondi.
Mi girai verso la signora Garza e dissi: “È tutto?”. Lei annuì e io le mostrai l’elenco di tutte le sue preoccupazioni. Visto sulla pagina, l’elenco non sembrava così travolgente. Era lungo ma circoscritto. Sembrava affrontabile, per entrambe.
Eppure – racconta l’autrice – alla prova dei fatti, cioè secondo una serie di esperimenti dove i pazienti sono stati incoraggiati a esporre la propria situazione senza interruzioni, non si superavano in media i 90 secondi. “Una premessa incoraggiante se non altro per riflettere su questa pratica”, dice Ofri.
I capitoli sono proprio questo: una serie di storie vissute in prima persona da Danielle (che è medico al Bellevue Hospital di New York da oltre vent’anni e docente alla New York University) o frutto di conoscenza diretta dell’autrice, ognuna delle quali esplora un aspetto della comunicazione fra medico e paziente. In questo modo, alternando le storie alle evidenze scientifiche, chi legge può riflettere su esempi quotidiani di pratica clinica, traendo spunto dagli errori e dalle esperienze felici della Ofri.
Corine ascoltava anche le storie che le raccontavano i familiari, gli amici e i colleghi di lavoro dei pazienti e così si rendeva conto di come il cancro piantasse i suoi spinosi tentacoli in una rete sempre più ampia.
È limitante però che questa grande missione che è l’ascolto del paziente sia totalmente sulle spalle del medico, specialmente quello di base. Siamo al REshape Innovation Center dell’Ospedale di Radboud, in Olanda, quando il direttore dell’ospedale, Lucien Engelen, capisce che è necessaria una figura nuova all’interno dell’ospedale, qualcuno che presti attenzione non solo alle esigenze, ma anche ai racconti dei pazienti, facendo da ponte con i clinici. Corine Jansen è stata la prima Chief listening officer di cui si conosca la storia.
Questo è un libro che commuove perché non raccoglie solo successi e relazioni riuscite. L’alleanza terapeutica è difficile anche quando entrambe le parti la desiderano e si sforzano per ottenerla. Morgan Amanda Fritzlen, 25 anni, non ce l’ha fatta. La sua storia da sola ne vale la lettura, più di qualsiasi numero.
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