AMBIENTEATTUALITÀ

Invasione di locuste in Africa tra cause e conseguenze

Luca Mazzon, ricercatore dell'Università di Padova ci aiuta a capire questo fenomeno che sta colpendo il Corno d'Africa e il Golfo Persico.

L’invasione di locuste che ormai da mesi sta interessando il Corno d’Africa e il Golfo Persico rappresenta una “minaccia senza precedenti alla sicurezza alimentare e ai mezzi di sussistenza”, come scrive la FAO. Una piaga cui non possiamo non prestare attenzione, neanche in questo periodo di emergenza da Covid-19. Partita tra lo Yemen e l’Arabia Saudita nel gennaio 2019, la prima sciamatura di insetti ha raggiunto Somalia ed Etiopia tra giugno e dicembre, allargandosi poi sempre di più nei Paesi confinanti.

Ma chi sono gli insetti responsabili dell’invasione? E soprattutto, perché questa avviene, e come si può contrastare? Nel parliamo con Luca Mazzon, ricercatore del Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse Naturali e Ambiente dell’Università di Padova.

Conoscere l’invasore

“Locusta” è un nome piuttosto generico che fa riferimento a diverse specie di insetti appartenenti alla famiglia degli acrididi e all’ordine degli ortotteri. «Quella responsabile delle attuali esplosioni demografiche africane si chiama Schistocerca gregaria, o locusta del deserto; ha diffusione asiatica e africana ed è adattata a vivere in habitat deserti e aridi. Già il nome dice molto circa le sue abitudini di vita: si tratta di una specie che può dare origine a grossi sciami. Del resto, è la stessa specie di cui si parla nella Bibbia, nell’episodio delle piaghe d’Egitto», spiega Mazzon. «Normalmente, nella fase solitaria, i singoli individui vivono isolati, cercando nutrimento tra gli arbusti. Quando, per qualche motivo, il loro numero aumenta rapidamente, si riuniscono in sciami che devastano la vegetazione in breve tempo».

Il processo che porta a questa gregarizzazione si basa su un interessante meccanismo biologico, innescato proprio dalla crescita demografica della popolazione d’insetti. Come ha dimostrato uno studio pubblicato nel 2009 su Science, il contatto fisico che deriva dall’essere accalcati fa sì che le locuste inizino a produrre serotonina: l’ormone che nella nostra specie è associato – tra le altre cose – all’umore, scatena invece nella locuste lo stimolo alla gregarizzazione. «Le locuste s’iniziano a raccogliere in grandi sciami che migrano per chilometri alla ricerca di risorse vegetali naturali o – purtroppo – coltivate», continua il ricercatore.

Un altro aspetto interessante di questa transizione è che al cambiamento di comportamento è associato anche un cambiamento di aspetto fisico: il colore verde o brunastro degli adulti quando la locusta è in fase solitaria, che aiuta l’insetto a mimetizzarsi con l’ambiente, diventa di un giallo acceso, con segni neri, nella fase gregaria. Questa “doppia natura” della locusta del deserto rappresenta un esempio di polifenismo, ossia una condizione nella quale, a seconda delle condizioni ambientali, lo stesso genotipo può portare a fenotipi diversi (è quanto avviene anche, ad esempio, quando la temperatura influenza il sesso del nascituro in alcuni rettili, come tartarughe o coccodrilli).

Condizioni ambientali e numeri che scappano di mano

In inglese, l’attuale invasione di locuste può essere definita anche con il termine outbreak. Ma, chiarisce Mazzon, non si tratta di un evento paragonabile a un’epidemia. «Per gli insetti, si ha un’invasione quando una determinata specie, per qualche ragione, ha esplosioni demografiche che la portano a invadere il territorio. Una delle cause dell’invasione può essere un andamento climatico particolarmente favorevole per una determinata specie». Se, ad esempio, un inverno è molto mite, o molto poco piovoso, si può ridurre il modo considerevole la mortalità degli insetti, la cui popolazione risulterà quindi consistente.

È esattamente ciò che sembra essere successo nel caso delle locuste nel Corno d’Africa. «La comunità scientifica è abbastanza concorde nell’attribuire le cause delle invasioni in corso in Africa al lungo e anomalo periodo umido e alle forti piogge, che hanno interessato da più di un anno gli habitat normalmente aridi in cui vive S. gregaria», continua il ricercatore. Condizioni che, per stabilirsi, richiedono un certo tempo. Come spiega Erik Stokstad su Science, infatti, un primo ciclone (Mekunu) si è originato nel maggio del 2018 e ha interessato l’Arabia Saudita, lo Yemen e l’Oman. Le inusuali, intense piogge hanno portato a un’esplosione della vegetazione; questa, a sua volta ha favorito una crescita sproporzionata della popolazione di locuste che, nell’arco di sei mesi, è cresciuta di 400 volte. Di norma, spiega ancora Stokstad, la popolazione diminuirebbe man mano che il deserto torna alla sua condizione di aridità ma, purtroppo, si sono verificati altri due cicloni, uno nell’ottobre del 2018 e un secondo nel dicembre 2019. Così, le locuste hanno potuto continuare a moltiplicarsi. E migrare.

«S. gregaria vive in difficili ambienti desertici, e ha fatto della migrazione una delle sue principali armi per la propria sopravvivenza. Tale comportamento è normale in questa specie e c’è sempre stato. Ciò che invece è anomalo nell’invasione attualmente in corso sono le dimensioni degli sciami, dovuti al grande aumento numerico che si è avuto per più generazioni di locuste, legato a sua volta all’anomalo andamento climatico», spiega Mazzon.

E sebbene le sciamature siano sempre avvenute, i cambiamenti climatici possono avere un ruolo nell’influenzarle; come spiega Keith Cressman, della FAO, su National Geographic, l’aumento nella frequenza dei cicloni potrebbe portare anche a più invasioni. Conoscere e studiare gli andamenti climatici, comunque, può aiutare anche la previsione della demografia della specie.

Lotta all’invasione. Anzi, da prima

L’invasione di locuste sta causando gravissimi danni ai Paesi colpiti. «Purtroppo, le aree geografiche interessate di regola da questo fenomeno sono di per sé aree nelle quali l’agricoltura è difficile, e già interessate da problemi politici, siccità e alluvioni. Gli sciami possono devastare al loro passaggio alberi da frutta, coltivazioni e qualsiasi tipo di vegetazione, perché la specie è polifaga», spiega Mazzon. E, oltre a essere polifaghe – in altre parole, nient’affatto schizzinose nella scelta alimentare -, le locuste sono voraci. La FAO riporta che un individuo adulto consuma ogni giorno all’incirca il suo equivalente di peso (due grammi) in cibo. Uno sciame di 40 milioni di locuste può consumare in totale, in un giorno, tanto cibo quanto 35.000 persone (e bisogna considerare che gli sciami possono arrivare a essere grandi centinaia di chilometri quadrati, ciascuno dei quali con 40-80 milioni di locuste per chilometro quadrato).

Oltre ai danni all’agricoltura, l’invasione potrebbe avere un indiretto effetto negativo sugli ecosistemi, dovuto ai sistemi impiegati per contrastarla. «La distribuzione con mezzi aerei di quantitativi importanti di insetticidi di sintesi ha sicuramente degli effetti disastrosi dal punto di vista ecologico e, nel lungo periodo, può anche essere controproducente nella lotta alle locuste. Spesso infatti gli insetticidi usati non sono selettivi nei confronti degli insetti nemici naturali delle locuste, per cui eliminandoli facciamo in un certo senso un favore alle cavallette stesse», spiega Mazzon. «Per fortuna, sono in studio alcuni prodotti di origine naturale per il controllo biologico di Schistocerca gregaria. Ad esempio, la FAO ha prodotto delle linee guida per la lotta alla locusta mediante Metarhizium anisopliae var. acridium, un fungo entomopatogeno abbastanza specifico per S. gregaria e innocuo per la nostra specie, per l’ambiente e per gli altri insetti, compresi i nemici naturali».

«In ogni caso, per essere efficaci questi prodotti devono essere usati precocemente, ossia quando sono presenti le ninfe (lo stadio giovanile delle locuste), che non volano e non sciamano. Affinché ciò possa avvenire, però, sono necessari progetti di monitoraggio delle popolazioni dell’insetto articolati, personale preparato, coordinamento tra i Paesi e risorse», continua il ricercatore. Giocare d’anticipo contro le invasioni è la chiave per sconfiggerle. «Vi sono però problemi nel contrastare l’invasione, dovuti a mezzi e risorse scarsi dei Paesi interessati, spesso anche politicamente instabili, per cui nella maggior parte dei casi i provvedimenti di lotta con mezzi aerei e da terra vengono presi troppo tardi, quando la popolazione di S. gregaria è già diventata ingestibile ed è sfuggita al controllo interessando superfici troppo vaste», spiega Mazzon.

Invasioni biologiche

Se è vero che occasionali invasioni di locuste non sono una novità, e sono sempre avvenute nel corso della storia, è anche bene riflettere su come l’attuale globalizzazione possa incentivare altri tipi d’invasione, quelli legati agli insetti alieni. «Viviamo in un’epoca di globalizzazione nella quale lo spostamento di persone e cose da un continente all’altro avviene in poche ore e con frequenza sempre maggiore. È come se le grandi barriere geografiche date montagne e oceani non esistessero più. Le varie specie animali (e anche vegetali) che per migliaia di anni sono rimaste isolate ciascuna nel proprio areale d’origine oggi possono non esserlo più», spiega Mazzon. «Sono tantissime le specie, soprattutto d’insetti, che accidentalmente possono essere imbarcate in un container di una nave o di un aereo. Ora, se il Paese dove sbarcano ha un clima avverso, questi individui si estingueranno in breve tempo. Ma se disgraziatamente il clima è simile a quello della loro terra di origine, non avranno problemi a naturalizzarsi. E qui frequentemente sorgono i problemi, anche perché nel nuovo ambiente mancano i nemici specifici che nell’areale di origine aiutano a contenerne la popolazione».

Nel caso delle invasioni biologiche di specie alloctone, si pone anche il problema dell’impatto negativo con le specie autoctone, con cui gli insetti (e non solo, come abbiamo ricordato ad esempio anche qui e qui) entrano in competizione.

Oltre, naturalmente, agli effetti negativi sull’agricoltura: è il caso dell’introduzione in Europa della cimice asiatica e del moscerino dei piccoli frutti, entrambi responsabili di importanti danni alla frutticoltura. «Non possiamo non citare anche il cinipide del castagno, arrivato in Europa all’inizio del Duemila, che ha messo in crisi la produzione delle castagne da frutto. Senza contare che alcuni insetti invasivi pongono anche problemi sanitari: è il caso, ad esempio, della zanzara tigre, potenziale vettore di patologie per la nostra specie. E la lista d’insetti invasivi, e dei loro danni, potrebbe continuare», conclude Mazzon.


Leggi anche: Gli insetti nel piatto

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

Condividi su
Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.