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Il mondo è diviso sulle strategie per arginare la pandemia di Covid-19

Mentre l’epicentro del contagio si sposta dall’Asia all’Europa, esperti e governi si interrogano sulle misure più efficaci per contenere la diffusione del nuovo coronavirus

Dopo che lo scorso 11 marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato ufficialmente la pandemia, la comunità internazionale sembra prendere coscienza che, con ogni probabilità, non sarà possibile fermare la diffusione della COVID-19. Dalla Cina l’epicentro dell’epidemia si è ormai spostato in Europa, dove sono attivi diversi focolai indipendenti, mentre negli Stati Uniti è stata proclamata l’emergenza nazionale. Presto o tardi, tuttavia, anche il resto del mondo dovrà fare i conti con il nuovo coronavirus, troppo subdolo e contagioso per impedire che, passando da persona a persona, si diffonda in ogni angolo del pianeta.

Al tempo stesso, l’OMS afferma che questa è la prima pandemia della storia che potrà essere controllata. Se infatti non possiamo fermare il contagio, possiamo però rallentare l’avanzata dell’epidemia con misure di contenimento, per evitare il collasso delle strutture sanitarie e dare tempo alle nazioni non ancora colpite di attrezzare gli ospedali e preparare il personale medico. Perché finora, ammonisce l’OMS, è stato fatto ben poco e molti governi insistono nel sottovalutare il rischio. Durante la conferenza stampa dell’11 marzo, il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus non ha nascosto la sua preoccupazione per «l’elevato livello di inazione» di molti Paesi, una formula che ricorda il biasimo delle Nazioni Unite per lo scarso impegno contro la crisi climatica.

Europa in ordine sparso

Da alcune settimane l’Italia è in prima linea negli sforzi per contenere la diffusione della COVID-19, con l’obiettivo di limitare il contatto fra le persone e interrompere così la catena del contagio. In Cina e in Corea del Sud questa strategia sembra avere funzionato, ottenendo il plauso dell’OMS, che ritiene essenziale insistere sul contenimento dell’epidemia, isolando i casi sospetti, imponendo quarantene e limitando le attività economiche e sociali.

Nel resto del mondo, tuttavia, la lezione non sembra affatto appresa. In questi giorni i governi europei hanno reagito in ordine sparso, spesso ritardando l’introduzione delle misure di contenimento in attesa di verificare se l’aumento dei casi avrebbe seguito l’andamento osservato nel nord Italia. Gli ultimi dati disponibili sembrano indicare che in molti Paesi europei l’epidemia avanza con un ritardo di 7-10 giorni rispetto a noi. Questo ha convinto Spagna, Francia, Austria e Danimarca a seguire il modello italiano, imponendo restrizioni agli spostamenti e alle attività economiche sull’intero territorio nazionale.

La Germania sconta una gestione più complicata a causa dell’autonomia dei diversi Länder, ma può contare su un maggior numero di posti letto nei reparti di terapia intensiva. La cancelliera Angela Merkel ha però avvertito che, senza interventi di contenimento, il 60-70% dei cittadini tedeschi potrebbe essere contagiato, anticipando che saranno prese misure adeguate per fronteggiare l’epidemia, definita come «imprevedibile». Nel frattempo, in deroga agli accordi di Schengen, Germania, Slovenia, Polonia, Repubblica Ceca e altri Paesi europei hanno deciso di chiudere le frontiere, nonostante l’OMS ritenga inutile blindare i confini nell’illusione di tenere il virus fuori dalla porta di casa.

La Gran Bretagna rinuncia al contenimento

La Gran Bretagna, dove si sono già contate 35 vittime, resta invece fuori dal coro(*). In questa fase, il piano d’azione del governo non prevede infatti né la chiusura delle scuole né la cancellazione dei grandi eventi, sebbene non si escludano restrizioni in futuro. Tuttavia non si tratta di una sottovalutazione del rischio. Il 12 marzo il premier Boris Johnson non ha nascosto alla nazione che «questa sarà la peggiore crisi sanitaria della nostra generazione. Qualcuno l’ha paragonata a un’influenza stagionale; ahimè, non è così. A causa della mancanza di immunità questa malattia è più pericolosa». Johnson ha quindi aggiunto: «Si diffonderà ulteriormente e devo essere sincero con voi: molte altre famiglie perderanno i loro cari prima del tempo». Chris Whitty, responsabile medico del governo, ha dichiarato che nello scenario peggiore l’80% della popolazione britannica contrarrà il virus; assumendo un mortalità dell’1%, occorre dunque aspettarsi oltre mezzo milione di morti.

Il consigliere scientifico del governo, Patrick Vallance, ha inoltre stimato che in Gran Bretagna potrebbero esserci già 5-10 mila casi sommersi (cioè non identificati perché le persone infettate hanno sintomi lievi o sono asintomatiche) a fronte di circa 1.500 casi confermati. Secondo Vallance è ormai impossibile arrestare l’epidemia, che potrebbe seguire l’andamento osservato in Italia con un ritardo di circa quattro settimane. Gli esperti del governo britannico puntano quindi a ritardare la diffusione del contagio, per evitare di sovraccaricare le strutture sanitarie, senza però adottare drastiche misure restrittive che, essendo destinate a restare in vigore per molti mesi, potrebbero avere ricadute economiche e sociali insostenibili. L’obiettivo, in altre parole, è diluire nel tempo il numero di contagi mentre l’epidemia segue il suo corso, passando così alla fase di mitigazione, senza però escludere interventi più drastici  (al momento ci si limita raccomandazioni: evitare i viaggi non necessari, privilegiare il lavoro da casa e diminuire i contatti sociali)  se nelle prossime settimane l’aumento dei ricoveri ospedalieri diventasse difficile da gestire. Per questo i tamponi non saranno più fatti a chi presenta sintomi lievi, ma soltanto alle persone ricoverate in ospedale, mentre chi ha febbre o tosse è invitato a restare a casa per non diffondere il contagio, come avviene per l’influenza.

L’approccio britannico è stato contestato dall’OMS che, come detto, ritiene che si debba insistere sul contenimento, ma ha fatto discutere soprattutto per un’affermazione pronunciata da Vallance in conferenza stampa, secondo il quale «almeno il 60% dei britannici dovrà contrarre il coronavirus per sviluppare l’immunità di gregge». L’immunità di gregge consente di tutelare le persone più vulnerabili a una malattia infettiva vaccinando la gran parte della popolazione, impedendo così la circolazione del patogeno. Poiché tuttavia non potremo disporre di un vaccino contro il nuovo coronavirus prima di 12-18 mesi, le parole di Vallace sono state interpretate come la volontà del governo britannico di lasciare la popolazione in balia del contagio. Non essendo inoltre noto se contrarre la COVID-19 possa conferire un’immunità duratura, giacché il nuovo coronavirus potrebbe mutare come avviene per l’influenza stagionale o per il raffreddore, diversi commentatori hanno giudicato questa strategia azzardata, se non addirittura cinica. Non sono mancate le voci critiche anche nella comunità scientifica. Il direttore della rivista medica The Lancet, Richard Horton, non ha esitato ad affermare che il governo «gioca alla roulette con i cittadini».

Vallace ha però chiarito che la sua affermazione – senza dubbio infelice – è stata male interpretata perché in realtà l’immunità di gregge non è certo l’obiettivo del piano adottato dal governo britannico che, come detto, punta invece sulla mitigazione dell’impatto dell’epidemia e non esclude l’introduzione di restrizioni per controllarne gli sviluppi , o per proteggere le fasce di popolazione più a rischio, a partire dagli anziani con più di 70 anni, a cui potrebbe essere presto chiesto di isolarsi in casa per quattro mesi. Il governo garantisce inoltre che il piano strategico contro il nuovo coronavirus è stato sviluppato con il contributo di numerosi esperti di fama internazionale, e che si basa sul rigoroso esame della letteratura scientifica disponibile.

Trump sotto accusa negli Stati Uniti

Le polemiche non hanno risparmiato neppure la gestione della crisi negli Stati Uniti, dove si contano oltre 3.800 contagi e 72 vittime. Dopo aver a lungo sminuito il rischio, paragonando la COVID-19 a una banale influenza, il 13 marzo il presidente Donald Trump ha dichiarato lo stato di emergenza. Il provvedimento permetterà di sbloccare 50 miliardi di dollari per finanziare gli interventi necessari a fronteggiare l’epidemia.

Nello stesso giorno in cui veniva proclamava l’emergenza, la rivista scientifica Science ha pubblicato un intervento molto duro nei confronti della presidenza Trump. Nell’editoriale a firma del direttore H. Holden Thorp, intitolato Do us a favor (letteralmente, Ci faccia un favore), la più prestigiosa rivista scientifica statunitense chiedeva al presidente di trattare la scienza con rispetto, criticando l’atteggiamento negazionista di Trump e il tentativo di mettere un bavaglio agli esperti impegnati a informare l’opinione pubblica sull’epidemia.

L’epidemia nel resto del mondo

In Cina, almeno per il momento, il peggio sembra passato. Con la progressiva diminuzione dei contagi, le restrizioni sono destinate ad allentarsi, ma l’attenzione resta ancora molto alta. Il timore è che possano accendersi altri focolai e che l’epidemia possa riprendere vigore con il ripristino delle attività economiche. Man mano che la COVID-19 si diffonde nel resto del mondo, aumenta inoltre il rischio che persone infette provenienti da altri Paesi possano diffondere l’epidemia in grandi città come Pechino o Shanghai, facendo ripiombare la Cina nell’emergenza. Un rischio che in futuro dovrà affrontare anche l’Italia.

Dopo Cina e Italia, l’Iran resta il Paese più colpito. I dati ufficiali parlano di circa 15 mila casi confermati e oltre 850 vittime. Nonostante l’Iran possa contare su un sistema sanitario di buon livello, la situazione non sembra sotto controllo e si teme che il regime di Teheran possa avere celato la reale portata dell’emergenza.

La Corea del Sud sembra invece essere riuscita ad arginare la diffusione del virus adottando quarantene drastiche e l’impiego massiccio di tamponi e strumenti di sorveglianza tecnologici – dalle telecamere a circuito chiuso ai tracciati GPS dei cellulari, fino agli acquisti con le carte di credito – per rintracciare chiunque fosse stato a contatto con una persona infetta. Si è così riusciti a contenere il numero delle vittime: finora sono 75 rispetto agli oltre 8.200 mila casi confermati.

A causa delle numerose incertezze che permangono sulla natura del nuovo coronavirus e sugli sviluppi della pandemia, tuttavia, nessuno è in grado di affermare quale strategia si dimostrerà più efficace a lungo termine. Tanto più considerando che l’efficacia delle misure di contenimento e mitigazione, che impattano su ogni aspetto della vita delle persone, dipende fortemente dal contesto geografico, demografico e socioculturale in cui viene applicata. Non è detto, in altre parole, che quel che sembra funzionare in un Paese possa essere esportato in un altro. E così non sorprende che il mondo si presenti diviso nell’affrontare quella che potrebbe essere la più grave pandemia dell’ultimo secolo.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagini: Pixabay

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).