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Da dove arriva il coronavirus della Covid-19?

Il nuovo coronavirus non è stato creato in laboratorio, ma il dibattito sui rischi di manipolare gli agenti patogeni divide anche la comunità scientifica. Gli studi sul salto di specie? Riservano altre sorprese.

Nei giorni scorsi sui cellulari di molti italiani è rimbalzata una notizia inquietante: un servizio del TGR Leonardo, il telegiornale tematico di scienza e tecnologia di Rai 3, dava notizia di pericolosi esperimenti condotti in Cina sui coronavirus dei pipistrelli. Nel servizio, dal titolo Il rischio del supervirus, si racconta di un gruppo di ricercatori cinesi che avrebbe innestato il gene della proteina SHC014 appartenente a un coronavirus dei pipistrelli sul virus della SARS adattato per l’organismo dei topi, creando così un virus chimera potenzialmente capace di infettare anche gli esseri umani.

Il servizio del TGR Leonardo, tuttavia, risale al 2015 e il virus chimera di cui parla non ha niente a che fare con il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 responsabile della COVID-19. Stabilirlo è facile perché le sequenze genetiche di entrambi i virus sono note e sono pubbliche: basta confrontarle per concludere che non si tratta dello stesso patogeno. Era dunque una bufala ma, vuoi per l’oggettiva complessità della vicenda, vuoi per l’enorme attenzione che suscita qualsiasi notizia sulla pandemia, molte persone sono state indotte a credere che si trattasse della prova di un terribile complotto o, nella migliore delle ipotesi, dell’esito infausto di un esperimento sfuggito al controllo.

Ricerche pericolose?

L’esperimento raccontato nel servizio del TRG Leonardo è avvenuto davvero, ma non ha nulla di segreto, tanto che è stato illustrato nel dettaglio in un articolo apparso sulla rivista scientifica Nature Medicine già nel 2015. Peraltro, sebbene a quella ricerca avessero effettivamente collaborato due scienziati cinesi del laboratorio di biosicurezza di Wuhan, l’esperimento era stato condotto da Ralph Baric, direttore del laboratorio di immunologia e microbiologia dell’Università della North Carolina (Stati Uniti) – a cui si deve il Remdesivir, l’antivirale sviluppato per combattere l’Ebola e oggi somministrato in via sperimentale anche ai pazienti più gravi affetti da COVID-19 – insieme ad altri esperti statunitensi dell’Harvard School of Medicine e della Food and Drug Administration (FDA).

Lo studio aveva come obiettivo la comprensione dei meccanismi biologici del salto di specie del coronavirus dei pipistrelli agli esseri umani. Nonostante il nobile intento, già all’epoca quella stessa ricerca aveva suscitato accese polemiche pure all’interno della comunità scientifica, puntualmente riportate da Nature e da altre riviste di settore. La disputa verteva su un interrogativo: le informazioni che si possono ricavare manipolando un virus dal potenziale pandemico giustificano il rischio che si corre se qualcosa andasse storto e il virus si diffondesse nella popolazione umana? A dimostrazione che le preoccupazioni dei non esperti non sono poi così dissimili da quelle che fanno discutere, talvolta anche in modo acceso, gli stessi scienziati.

Un cortocircuito che, dopo il clamore sollevato dal servizio del TRG Leonardo, ha indotto la rivista Nature ad aggiungere un’avvertenza in testa all’articolo pubblicato nel 2015: «Siamo consapevoli che questa vicenda viene usata come pretesto per teorie non verificate, secondo le quali il nuovo coronavirus che causa la COVID-19 sarebbe stato ingegnerizzato. Non c’è alcuna prova che questo sia vero; gli scienziati ritengono che la fonte più probabile del coronavirus sia un animale.»

Guerra biologica e bioterrorismo

Come racconta Stefano dalla Casa su Wired, le teorie del complotto sui patogeni sfuggiti al controllo sono ricorrenti, precedono i social media e trovano ispirazione in alcune vicende realmente accadute, come l’epidemia di influenza del 1977, con ogni probabilità causata da una contaminazione in un laboratorio militare. A partire dagli anni Cinquanta, del resto, la possibilità di impiegare virus, tossine o batteri potenziati a scopo bellico è diventata una terribile realtà. Per questo dal 1975 è in vigore una convenzione internazionale che vieta lo sviluppo e l’impiego di armi biologiche.

Sia in campo civile che militare, in ogni caso, gli esperimenti sugli agenti patogeni sono condotti in laboratori in grado garantire un elevato grado di biosicurezza che rendono la fuga accidentale estremamente improbabile. Esiste tuttavia un rischio residuo difficile da quantificare, ma di certo non nullo, di incidenti con conseguenze potenzialmente molto gravi che negli ultimi anni ha sollevato un ampio dibattito sull’opportunità di manipolare virus o batteri pericolosi per gli esseri umani e rendere pubblici i risultati degli studi. Dopo gli attentati terroristici del settembre 2001 e la successiva diffusione di lettere contenenti spore di antrace ingegnerizzate – con ogni probabilità fatte uscire intenzionalmente dai laboratori militari di Fort Detrick, nel Maryland (Stati Uniti) – le principali riviste scientifiche avevano addirittura optato per una sorta di autocensura preventiva.

Più di recente, la polemica si era riaccesa nel 2011, quando due gruppi di ricerca avevano modificato il virus H5N1 dell’influenza aviaria creando un ceppo in grado di trasmettersi per via aerea tra i furetti, le cavie più usate negli studi sui virus influenzali umani. In quel caso l’intento era comprendere se il virus dell’aviaria potesse acquisire la capacità di trasmettersi da persona a persona pur mantenendo la sua terrificante letalità, stimata intorno al 50%. La risposta fu sì, almeno per i furetti, e dunque presumibilmente anche per gli esseri umani: sono sufficienti cinque mutazioni che potrebbero avvenire anche in natura. Anche allora il dibattito si estese all’opportunità di pubblicare i dettagli della ricerca, nel timore che potessero essere usati a fini terroristici (sebbene si trattasse di un’eventualità abbastanza remota perché trasformare un agente patogeno in un’arma biologica efficace richiede tecnologie e capacità non comuni). Resta il fatto che ora abbiamo una variante dell’H5N1 dal potenziale pandemico creata in laboratorio.

Il pipistrello e il pangolino

Per quel che riguarda il nuovo coronavirus, invece, una ricerca pubblicata il 17 marzo su Nature Medicine ha messo fine alle speculazioni sulla sua origine artificiale. Lo studio, basato su un’analisi comparativa, ha permesso di escludere che il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 sia stato creato in laboratorio o sia il frutto di una manipolazione genetica. Sull’intera sequenza del suo DNA, infatti, distribuite in modo causale, si osservano numerose variazioni puntuali che lo differenziano dagli altri coronavirus conosciuti, marchio di fabbrica della selezione naturale. Se fosse stato ingegnerizzato, al contrario, non sarebbe stato difficile individuare, in tratti ben localizzati della sequenza del virus, l’inserimento di interi blocchi di DNA estranei, marchio di fabbrica di una manipolazione genetica.

Se dunque l’origine naturale del coronavirus è ormai accertata, non è ancora chiaro quali animali siano implicati nel salto di specie. L’ipotesi prevalente è che i pipistrelli abbiano agito da serbatoio biologico: anche se di solito non si ammalano, è ben noto che questi animali possano ospitare diversi coronavirus. In più sono mammiferi come noi, e come noi amano riunirsi in grandi colonie dove è facile passarsi un virus l’un con l’altro. Infine, mentre noi usiamo gli aerei per spostarci da un continente all’altro, loro hanno le ali per coprire grandi distanze e diffondere agenti patogeni in lungo e in largo.

Tuttavia non sappiamo se qualche altro animale possa avere fatto da ospite intermedio prima del salto di specie dai pipistrelli agli esseri umani. Gli scienziati sospettano del pangolino, un mammifero insettivoro ricoperto da una corazza di squame che sembra un incrocio tra un formichiere e un armadillo. Era già noto che questi animali potessero ospitare dei coronavirus, ma ora una nuova ricerca, anche questa in via di pubblicazione su Nature, ha scoperto nei pangolini anche il virus SARS-CoV-2 responsabile della COVID-19.

Ecco come potrebbe essere andata: da qualche parte della Cina rurale un animale selvatico, forse proprio un pangolino in cerca di formiche – è venuto in contatto con le deiezioni di un pipistrello. Per un po’ il coronavirus ha continuato a circolare fra la fauna selvatica, in attesa dell’occasione giusta per estendere il suo bacino di trasmissione. E un bel giorno (per il virus, non per noi) l’occasione è arrivata: un pangolino infetto è venuto a contatto con un essere umano. Forse un venditore del mercato del pesce di Wuhan che, prima di essere chiuso, ospitava una sezione dedicata al commercio di animali selvatici, venduti vivi o macellati sul posto.

Il traffico di animali selvatici

Per quanto ne sappiamo, né pipistrelli né pangolini erano nella lista degli animali in vendita al mercato di Wuhan. Ma in Asia i pangolini, come altre specie, sono oggetto di un ampio traffico di animali selvatici, al punto da essere a rischio di estinzione: le squame sono molto richieste per il loro impiego nella medicina tradizionale cinese, mentre la carne è considerata una prelibatezza. Gli autori dello studio di Nature avvertono che la vendita dei pangolini dovrebbe essere vietata.

La Wildlife Conservation Society si è spinta oltre chiedendo di vietare i mercati di animali selvatici vivi, invitando i governi a riconoscere che i cosiddetti wet market – spesso scarsamente regolati e dove molte specie di animali provenienti da habitat e regioni geografiche diverse finiscono per trovarsi a stretto contatto fra loro e con gli esseri umani – rappresentano una minaccia globale per la salute pubblica. Un rischio complementare a quello costituito dagli allevamenti intensivi di maiali, polli e altri volatili domestici, diffusi in occidente come in oriente, da cui sono emersi l’H5N1 dell’influenza aviaria e l’H1N1 responsabile della pandemia influenzale del 2009.

La colpa, comunque, non è certo di pipistrelli e pangolini, animali insettivori essenziali per l’equilibrio degli ecosistemi e benèfici per gli esseri umani, perché divorano enormi quantità di zanzare e di parassiti dannosi per l’agricoltura. Il problema, semmai, è che con la nostra invadente presenza abbiamo moltiplicato le occasioni di contatto con animali selvatici altrimenti innocui, aumentando il rischio di trasmissione di nuovi agenti patogeni dal potenziale pandemico.


Leggi anche: Se il coronavirus si diffonde nel sud del mondo

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).