Uno studio corregge al ribasso l’aumento della popolazione mondiale
La sovrappopolazione potrebbe non essere uno scenario granitico come diverse previsioni hanno finora sostenuto. Su Lancet uno scenario alternativo.
Secondo uno studio dell’Università di Washington pubblicato da Lancet, la popolazione mondiale alla fine del XXI secolo potrebbe essere composta da 8,79 miliardi di persone: “solo” un miliardo in più di oggi. Non solo: quel dato al crepuscolo del primo secolo del Duemila arriverà come prima fase di un lento declino che dovrebbe iniziare intorno alla metà dei prossimi anni Sessanta. Il picco di popolazione, stando allo studio di Stein Emil Vollset e colleghi, verrà raggiunto nel 2064, anno in cui sono attesi 9,7 miliardi di persone sul pianeta. Non verrebbe quindi sfondata la “soglia psicologica” dei 10 miliardi, numero che altre stime hanno invece collocato come plausibile anche intorno al 2050.
Un altro dato al centro dello studio è l’invecchiamento della popolazione, frutto di un abbassamento dei tassi di mortalità. L’età media mondiale nel 2017 era di 32,6 anni. Quella del 2100 potrebbe essere di 46,2. Gli over 65 saranno oltre 2,37 miliardi contro gli 1,7 miliardi di under 20. Saremo di meno, saremo più vecchi e con sempre più adulti (15-65) che non lavorano: questi elementi potranno sconvolgere i tessuti produttivi e la ricchezza delle nazioni, causando crisi interne e conseguenti modifiche ai delicati equilibri geopolitici internazionali.
Il ruolo delle previsioni
Quando si parla di scenari futuri – capita spesso anche in ambito energetico o geopolitico – gli studiosi sono sempre estremamente cauti. Sono tantissime, forse troppe, le variabili da tenere in considerazione per avere proiezioni davvero affidabili. Ma come scrivono Vollset e colleghi: “capire potenziali modelli sui futuri livelli di popolazione è comunque cruciale per anticipare e pianificare eventuali piani di riforme ai sistemi sanitari, previdenziali, economici e sociali”.
Lo studio dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università dello Stato di Washington non si limita pertanto a fornire scenari sulle traiettorie della popolazione mondiale, ma arriva a calcolare i tassi di fertilità per 195 paesi nel mondo. Questa declinazione nazionale estremamente dettagliata porta gli autori dello studio a fornire interpretazioni e veri e propri consigli ai governi di oggi, rivelando un’anima estremamente politica e impegnata.
Il report si pone sin dalle prime battute in aperta competizione con il World Population Prospect (WPP) dell’ONU. Il report delle Nazioni Unite fornisce previsioni molto differenti, non vedendo all’orizzonte alcuna frenata nella corsa ai 10 miliardi, che secondo il WPP verranno raggiunti entro il 2060, per sfiorare gli 11 (10,8) nel 2100.
Un mondo nuovo
A livello continentale e nazionale avremmo un mondo completamente diverso da quello che oggi conosciamo, stravolto nelle sue dinamiche geopolitiche. Tutti i continenti e le macroregioni mondiali avrebbero popolazioni in contrazione: l’Asia perderebbe la sua preminenza, con la Cina pesantemente in frenata (-700 milioni di abitanti nel 2100 rispetto a oggi). Gli studiosi indicano anche il momento del “passaggio di testimone”: nel 2050, infatti, l’Africa sub-sahariana supererebbe l’Asia e diventerebbe la macroregione più popolosa in virtù non tanto di tassi di fertilità alti (anche questa regione va incontro a tassi di fertilità inferiori a quelli necessari per mantenere inalterata o aumentare la popolazione) quando per via di ridotti tassi di mortalità. Il dato è inequivocabile: oggi il tasso di fertilità dell’Africa sub-sahariana è di 4,62 figli per donna, nel 2100, stando allo studio, sarà di 1,73.
America Latina, Nord America e l’Europa continuerebbero in un lento ma inesorabile declino. Altra unica regione in crescita, ma con tassi più blandi rispetto all’Africa sub-sahariana, sarebbe l’Africa settentrionale.
Nel 2100 la nazione con più abitanti dovrebbe essere l’India, con poco più di 1 miliardo di persone, seguita dalla Nigeria al secondo posto con poco meno di 800 milioni di abitanti (oggi sono circa un quarto) e con la Cina, terza con circa la metà degli abitanti che conta oggi. Nella top ten sono attesi anche paesi come Etiopia, Egitto e Tanzania, che entro la fine del secolo dovrebbero più che raddoppiare gli abitanti. Sostanziale pareggio per gli Stati Uniti d’America e per il Pakistan, che aumenterebbero di poco l’attuale popolazione.
Il XXI secolo dell’Italia
L’Italia, come molti paesi europei, dovrebbe uscire dal secolo con la metà dell’attuale popolazione. Lo studio non si limita a fornire un singolo scenario, bensì propone alternative e versioni che tengono conto di risposte più o meno convinte agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU. Nello scenario più estremo, nel 2100 gli italiani saranno 27 milioni. Nello scenario considerato più probabile saranno 3 milioni in più. I numeri della fertilità non lascerebbero spazio a dubbi: oggi l’Italia ha uno dei tassi più bassi al mondo (1,33 quello del 2017, considerato dallo studio) che secondo la ricerca precipiterebbe a 1,23 nel 2100.
Che la popolazione italiana vada incontro a una progressiva contrazione non è certo una novità. La novità sta nella portata della riduzione, che l’articolo di Lancet considera ben più drastica di altre fonti. Secondo i dati ISTAT, nel 2066 gli italiani saranno 53 milioni (7 milioni in meno di oggi), mentre stando alle previsioni del World Population Prospects 2019 dell’ONU all’alba del 2070 l’Italia avrà 40 milioni di abitanti. Sul finire del secolo (2100) l’ONU prevede poco meno di 40 milioni di italiani, 10 milioni in più dello studio pubblicato da Lancet.
Il ruolo dell’immigrazione
Evitare un’esplosione demografica potrebbe non essere una brutta notizia, spiegano gli autori, soprattutto in considerazione dell’emergenza climatica in atto. Una popolazione che non arrivi ai 10-11 miliardi previsti per esempio dal Dipartimento di Economia e Affari Sociali delle Nazioni Unite potrebbe alleggerire i tassi di emissioni di CO2 – anche se, è bene ricordare, molti studi sostengono che per frenare il riscaldamento globale si deve approdare a emissioni negative, non zero né semplicemente “abbassate”. Ma al tempo stesso il cambiamento climatico sarà anche attore primario degli stravolgimenti in atto.
Ecco quindi che un pianeta molto più caldo potrebbe anche favorire flussi migratori più consistenti, soprattutto provenienti da quella parte del globo che secondo Vollset e colleghi sarà sempre più popolosa a differenza di tutto il resto della Terra: l’Africa. Secondo gli studiosi, quindi, impegnarsi in politiche migratorie sempre più accoglienti e sicure e capaci di garantire la sopravvivenza di masse in fuga da guerre e desertificazioni da un lato e di immettere forza lavoro in paesi sempre più spopolati e vecchi (molti paesi europei, come Italia e Spagna) potrebbe essere la soluzione che terrà in equilibrio la geopolitica mondiale in ciò che resta del Secolo che stiamo vivendo.
Investire nell’educazione femminile e nei diritti delle donne
Lo studio parla molto anche di donne. A differenza di quanto accade nei report delle Nazioni Unite sulle proiezioni di popolazione, dove secondo gli accademici di Seattle non viene dato abbastanza peso alle dinamiche di genere, nello studio pubblicato su Lancet un grande ruolo nella frenata della popolazione l’avrebbero la sempre maggiore alfabetizzazione delle donne e gli investimenti – che dovrebbero essere sempre più massicci e convinti nel prossimo futuro – nella loro salute riproduttiva, nella conseguente diffusione dei contraccettivi e nella lotta al gender pay gap, uno scenario purtroppo ancora troppo presente e sottovalutato nel dibattito pubblico.
Secondo gli studiosi attuare piani di welfare potrebbe non bastare per riportare il tasso di fertilità oltre il 2,1. Ecco quindi che le alternative rimarrebbero due: o frenare drasticamente su tutti quegli obiettivi di allargamento dei diritti delle donne – scenario ovviamente tetro e incompatibile con i valori democratici di società avanzate – o puntare, come si diceva prima, su politiche migratorie liberalizzate e concrete. In questo senso gli studiosi “bacchettano” l’amministrazione di Donald J. Trump per come ha improntato la sua politica di contrasto alle migrazioni e guardano invece alle recenti esperienze di Canada e Nuova Zelanda come modelli per il futuro a medio e lungo termine.
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